Capitolo III°

L’obbedienza

L’intervento di Gian Paolo Meucci su La Discussione, negli anni del terrorismo delle B. R., ha il merito di inquadrare, dal punto di vista di un progressista di parte cattolica, il problema dell’obbedienza in Lorenzo Milani.

Un’obbedienza che è sottoposta al dominio della coscienza, al di sopra della legge degli uomini: una coscienza che solo per i credenti coincide con la legge di Dio.

Coscienza: che regola e dirige ed anche vieta talvolta l’obbedienza; ma non la nega in linea di principio, bensì l’afferma, in quanto adesione alle regole del vivere associato, così nella società civile come in quella religiosa.

Ed è questo, per Meucci, che spiega l’obbedienza ostentata di don Lorenzo, anche contro i dettami della propria coscienza, alle imposizioni, finanche agli arbitrî, a cui lo sottoposero le gerarchie della sua società, la Chiesa.

"Non si può essere capaci di vivere nel cuore delle masse […] se non si assume sulle nostre spalle il carico di tutti i condizionamenti umani e quindi, anche il carico dell’obbedienza alle "regole" che condizionano il nostro vivere associato".

Sta in questa capacità di "farsi carico", per Meucci, la "possibilità di essere lume e guida degli oppressi".

Peraltro la Lettera ai giudici non era istigazione a violare la legge, bensì "un appello ad apprezzare il valore della legge proprio nel suo essere strumento caduco che deve essere modificato nel tempo per rispondere alle nuove esigenze".

Ed è Virgilio Zangrilli, polemizzando con uno dei tanti e velenosi attacchi portati al Priore dalla destra politica, a ricordare -citando Sant’Agostino e Martin L. King- che "una legge ingiusta non è più una legge" ma essa è soltanto "un codice che non è più in armonia con la legge morale".

Paolo Barile -che scrive a ridosso immediato della Lettera ai giudici- fa notare come don Milani, nella sua "robusta autodifesa", dimostri "il desiderio d’una piena assunzione di responsabilità" e non invece il "volersi porre nella posizione di chi respinge sdegnosamente critiche e accuse che non giungono a toccarlo"; Milani non vuol dire "che il maestro e il sacerdote non siano soggetti alle leggi come tutti gli altri, vuole piuttosto rivendicare loro una libertà d’insegnamento più privilegiata ancora".

Alessandro Galante Garrone, in un articolo su L’Astrolabio che don Milani gradirà assai poco, tanto da arrivare a chiedere ad Ernesto Rossi, direttore del giornale, di pubblicare una propria rettifica ad esso, scrive che gli "sembrano assai discutibili taluni suoi giudizi sulle guerre del passato, e sulle lotte del Risorgimento e dell’unità". Il Priore lo "persuade assai di più quando lascia da parte la storia degli ultimi cinquant’anni, e le visioni classiste", e si batte "per la condanna di ogni guerra".

FORSE DOMANI SCOPRIRANNO CHE SONO PROFETI

E’ giusto processare don Lorenzo Milani?

di Paolo Barile

L’Espresso, Roma, 7 novembre 1965

"Le cose che ho voluto dire con la lettera incriminata toccano da vicino la mia figura di maestro e sacerdote. In queste due vesti so parlare da me... ".

Con questa frase si apre la robusta autodifesa di don Lorenzo Milani, inviata ai giudici del tribunale di Roma. Essa sembra a prima vista venata di superbia; ma il tono generale dimostra piuttosto il desiderio d’una piena assunzione di responsabilità, che il non volersi porre nella posizione di chi respinge sdegnosamente critiche e accuse che non giungono a toccarlo. Don Milani non vuol dire insomma che il maestro e il sacerdote non siano soggetti alle leggi come tutti gli altri, vuole piuttosto rivendicare loro una libertà d’insegnamento più privilegiata ancora di quella comune espressione del pensiero.

La questione, come si sa, ebbe inizio nel febbraio quando i cappellani militari toscani (in congedo) emisero un comunicato nel quale dichiaravano di considerare "un insulto alla patria e ai suoi caduti la così detta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà". Don Milani aveva reagito pubblicamente contro questi sacerdoti che ingiuriavano alcuni carcerati: "Aspettate ad insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene.... La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che sono dei vili. Chi vi autorizza a rincarare la dose?". E aveva notato che la Chiesa non s’era ancora pronunciata; ma ora il Concilio sta per dichiarare il "rispetto" verso coloro che "o per testimonianza della mitezza cristiana, o per reverenza alla vita, o per orrore d’esercitare qualsiasi violenza, ricusano per motivo di coscienza o il servizio militare o alcuni atti d’immane crudeltà cui conduce la guerra". Di qui la denuncia e il processo per apologia di reato.

L’apologia di reato non può essere commessa che da un cattivo maestro, dice don Lorenzo. Questo è davvero il nocciolo della questione e nello stesso tempo la matrice delle questioni che ne nascono, vecchie quanto l’uomo ma che sempre si ripropongono nel lento cammino della civiltà. La scuola, continua don Lorenzo, è diversa dal tribunale, perché "siede tra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi". Occorre che i ragazzi abbiano il senso della legalità, ma che acquistino anche la "volontà di leggi migliori, cioè il senso politico". Il giudice è costretto ad applicare leggi che non sono tutte giuste; il maestro deve essere "per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi", ricordando che per un certo verso un ragazzo è un suo superiore "perché decreterà domani leggi migliori delle nostre". Ora, l’amore per la legge deve essere "costruttivo"; non si può insegnare che l’unico modo di amarla è quello di obbedirle; esiste anche, di fronte a leggi ingiuste, l’insegnamento che ci si deve battere perché siano cambiate. La leva ufficiale è il voto; ma s’affiancano ad essa due leve non meno importanti, lo sciopero e la parola.

Il ragionamento corre filato fino all’affermazione finale, sulla quale converrà soffermarci a parte. Le leggi vengono sempre, in parte sempre crescente, superate dall’evoluzione sociale; è antica constatazione quella secondo cui il diritto segue, non precede mai gli eventi, e neppure è contestuale ad essi, salvo in casi di rivoluzione. Ne segue che la critica al diritto vigente è lecita (come la critica alle sentenze che lo applicano) da parte di ogni cittadino, in quanto corretta ed anzi politicamente doverosa conseguenza d’una prospettazione del divenire della realtà sociale. Tale potere di critica rientra dunque nella libertà fondamentale di espressione del pensiero, che nella scuola è rivestita di particolare forza costituzionale in quanto può essere esercitata senza alcun limite (art. 33). E’ solo così che le leggi possono migliorare e hanno potuto giungere ad un grado generalmente soddisfacente quale è quello d’oggi, aggiunge esattamente don Milani; anzi, egli dice, si vanno avvicinando ormai a quelle di Dio (ma è ingiusto aggiungere "con buona pace dei laicisti", perché l’evoluzione dello Stato democratico è dovuta quasi esclusivamente ad essi non certo ai credenti, soprattutto in Italia!). Conseguentemente, dove c’è una dittatura, la legge non può essere oggetto di critica palese e quindi non resta che resistere ad essa in modo sovversivo; dove c’è la democrazia politica, ci si avvarrà delle procedure legislative di correzione, condizionando col voto l’azione del Parlamento e del governo, ma anche stimolando entrambi con la parola e con lo scritto.

Nel caso in esame, le critiche di don Lorenzo alle leggi vigenti partono sia da importanti considerazioni giuridiche, sia da altrettanto importanti considerazioni storiche, circa le decisioni e la condotta dell’Italia nelle guerre da un secolo in qua. Quindi, le critiche alle leggi, fondate o no che siano, appaiono perfettamente lecite.

Ma don Milani dice che tali critiche possono essere decisamente avanzate anche mediante fatti, e non solo con le parole: chi viola la legge a viso aperto, accettandone stoicamente la pena porta la testimonianza onorevole di chi paga di persona.

Questa è libera espressione di pensiero o apologia di reato? L’uomo della strada pensa che l’apologia, che presuppone un dolo, equivalga all’incitamento; e che l’incitamento sia cosa diversa dal sottolineare, come fa don Lorenzo, i motivi morali del gesto; anche il codice penale riconosce l’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale (ed è come se la società nel punire un uomo, con atteggiamento contraddittorio gli renda omaggio). e davvero non potrebbe rinvenirsi in don Lorenzo un atteggiamento di vilipendio verso le vittime della guerra ("Mi parrebbe di offenderle se lodassi chi le ha mandate a morire"): altrimenti dovrebbe intendersi come oltraggio anche la frase di Brecht "Beati quei popoli che non hanno bisogno di eroi".

 

IL PROFETA AMMANETTATO

Il processo a don Milani

di Alessandro Galante Garrone

L’Astrolabio, Roma, novembre 1965, pagg. 19-20

Don Milani merita non solo rispetto, ma gratitudine; perché è di quei rari uomini che annunciano e preparano leggi migliori in un mondo migliore. Il processo umano deve non poco a questi spiriti solitari, spesso singolari, ostinati, assoluti, scomodi.

Se vogliamo dare un giudizio equanime della lettera aperta che nel febbraio scorso don Lorenzo Milani scrisse ai cappellani militari toscani, per cui oggi è processato, e dell’ampia lettera-difesa da lui presentata al tribunale di Roma all’udienza dibattimentale del 30 ottobre u.s., non dobbiamo dimenticare il fatto che è all’origine di tutta la vicenda, e cioè il comunicato 16 febbraio 1965 pubblicato dal gruppo di cappellani militari della Toscana (una ventina in tutto, su un totale di 120). E’ un comunicato assai poco edificante, se si pensa a chi lo ha redatto: perché, a parte i "paroloni sentimentali" dell’abusatissima retorica patriottica, esso contiene volgari insulti agli obiettori di coscienza, accusati di viltà, e perentoriamente additati al disprezzo morale. Se uno qualsiasi dei 31 giovani obiettori, che oggi languono in carcere per "amor di fede" (come ha riconosciuto lo stesso tribunale militare di Torino), si fosse querelato per diffamazione, non so come gli autori di quel comunicato avrebbero potuto evitare una sacrosanta condanna. In difesa degli insultati, è subito insorto don Milani, con la sua lettera del febbraio, pubblicata poi da Rinascita. La conclusione della vicenda, è il processo contro don Milani. Cose di questa Italia. Ci sovvengono altri casi giudiziari: quello di Danilo Dolci (con la bellissima arringa di Piero Calamandrei a Firenze), quello di padre Balducci. Possiamo proprio dire grazie a certi cappellani infanatichiti, a certi zelanti funzionari, se oggi la nostra patria è considerata ancora da molti stranieri un "paese di selvaggi".

Voglio dire subito, a scanso di equivoci, che non tutte le affermazioni di don Milani mi trovano consenziente. Per esempio, mi sembrano assai discutibili taluni suoi giudizi sulle guerre del passato, e sulle lotte del Risorgimento e dell’unità. L’immedesimazione fra gli eserciti e le patrie è a volte riconosciuta (sia pure dubitativamente, con un prudente forse), a volte negata, secondo criteri distintivi assai poco convincenti. Egli dice: ha rappresentato la patria l’esercito che difese la Francia durante la rivoluzione, ma non certo quello di Napoleone in Russia. Ma la guerra del 1792, non fu voluta dai girondini, con spirito messianico, per portare la libertà negli altri paesi? Non fu forse, in questo senso, guerra di aggressione, crociata rivoluzionaria? [le due righe precedenti sono invertite nell’articolo originale. Nota di MM]. E, per venire al nostro paese, che significato storico, o politico attuale, ha mai l’asserzione che le azioni militari contro Roma del 1867 e del 1870 furono "guerre di aggressione"? Forse che Mentana non appartiene -pur con tutti gli errori di Garibaldi o di Rattazzi- alla tradizione del volontariato garibaldino? In realtà, don Milani sembra a volte far sua -e lo confessa con molto candore- la visione delle lotte risorgimentali che insegnavano nei seminari: Vittorio Emanuele, Garibaldi, Mazzini erano il diavolo; certamente, essi calpestavano i diritti legittimi della Chiesa, erano degli "aggressori", meritevoli degli anatemi di Pio IX! Don Milani si professa cattolico integrale, e addirittura cattolico conservatore, e scrive: "La storia d’Italia fino al 1929 nella mia lettera è identica a come la raccontavano i preti in seminario prima di quella data. Il mio vecchio parroco mi diceva che La Squilla[,] il giornale cattolico di Firenze, aveva in vetta e in fondo uno striscione nero. Portava il lutto del Risorgimento!". Confesso che mi è difficile seguire don Milani su questo territorio.

Tutta la distinzione che egli fa tra guerre giuste e guerre ingiuste, fra guerre difensive e guerre di aggressione -una distinzione che spesso ricorre negli ambienti clericali- è, insomma, piuttosto opinabile. Neanche persuade la distinzione che egli sembra porre fra le guerre combattute al servizio di una classe dominante, dei ricchi, dei potenti, degli sfruttatori, a cui si ridurrebbero quasi tutte le guerre del passato, e ogni altro immaginabile tipo di guerra, in cui non ci fosse questa imposizione di una classe sulle altre. Come si può fondare una difesa degli obiettori di coscienza su questa distinzione? Forse che don Milani non riconoscerebbe fondata l’obiezione di fronte a una guerra voluta da tutto un popolo che avesse ormai superato e annullato in sé ogni distinzione di classe? In realtà don Milani ci persuade assai di più quando lascia da parte la storia degli ultimi cinquant’anni, e le visioni classiste, e si batte nell’oggi, per la condanna di ogni guerra, per l’assolutezza del rispetto della coscienza dell’individuo, per la supremazia della coscienza sull’obbedienza. Egli, insomma, può aver ragione nel denunciare iniquità, sfruttamenti di classe, spiriti guerrafondai e imperialistici, ipocrisie nella storia umana degli ultimi secoli; ma non può farne argomenti decisivi a favore dell’obiezione di coscienza.

Neanche mi persuade la distinzione che egli fa tra leggi giuste e leggi ingiuste. E’ un criterio troppo elastico e vacillante. Per don Milani, sono giuste le leggi che "fanno la forza dei poveri"; ingiuste, quelle che a ciò contrastino. Anche Pio XI aveva distinto le leggi giuste dalle ingiuste, pur adottando un diverso criterio distintivo. Ingiuste, per il Pontefice, erano le leggi contrarie ai comandamenti della Chiesa; e nei loro confronti sarebbe stata lecita la trasgressione, la disobbedienza. Una distinzione, questa, che nessuno Stato, nessun giudice può accettare. Di fronte alle leggi ingiuste, o ritenute tali, non c’è che una via da battere (e lo stesso don Milani, a un certo punto, lo dice): battersi perché siano annullate o modificate. L’ingiustizia di una legge non è, per s[e] stessa, una ragione giustificatrice dell’obiezione di coscienza. Insomma, come fallace è la distinzione fra guerre giuste e guerre ingiuste, così è fallace la distinzione fra leggi giuste e leggi ingiuste. Il solo problema è se si debba rispettare, e fino a che limite, e in quali forme giuridiche, l’obiezione di coscienza, quali che siano le sue motivazioni soggettive.

Ho notato questi punti di dissenso (senza indugiare sui molti punti di consenso) solo per dire che si può anche non andare in tutto d’accordo con don Milani, senza per questo avere il diritto di tappargli la bocca, e di accusarlo di chi sa quali reati[:] di apologia di reato, di istigazione alla disobbedienza, di vilipendio. (In realtà, oltre alle imputazioni per cui è stato tratto in giudizio, abbiamo sentito fargli un sacco di altre accuse). E’ chiaro che egli si è limitato con le sue due lettere, a difendere la moralità di alcuni giovani obiettori vergognosamente insultati, e ad esporre le proprie idee sui doveri del cittadino di fronte al servizio militare, all’obbedienza, alla guerra. Guai a un paese, ove non si fosse liberi di agitare questi problemi, e sola regnasse la cappa del conformismo!

Una protesta legittima

Che cosa sono, in sostanza, le due lettere di don Milani, quella incriminata e quella inviata al Tribunale di Roma? Esse sono, prima di tutto, una difesa morale degli obiettori di coscienza, miserevolmente oltraggiati dai cappellani militari. "Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale... Quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede... Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri". E’ reato dire questo, mettere in luce l’ispirazione ideale che ha spinto questi giovani ad affrontare sacrifici infinitamente più duri del più gravoso servizio militare? Se anche la legislazione vigente fosse da approvare, il comportamento degli obiettori meriterebbe pur sempre, sul terreno morale, rispetto e ammirazione. (Inutile dire che per me, e per tanti altri, la vigente legislazione è criticabilissima; e che sarebbe ora di risolvere legislativamente il problema, regolando i casi legittimanti l’obiezione di coscienza. Ma questo è un altro discorso, che ho fatto altrove -v. La Stampa del 20 gennaio 1963-, e che meriterebbe di essere ripreso). Nella mia vita, io mi sono imbattuto una sola volta -non come giudice, ma p[r]ivatamente- in un obiettore di coscienza; e serbo un ricordo incancellabile della sua dignità, del suo tranquillo coraggio, della sua purezza ideale.

In secondo luogo, le due lettere sono un richiamo alla responsabilità degli uomini. Su una parete della piccola scuola del Mugello tenuta da don Milani, c’è scritto grande: I care. E’ il motto dei giovani americani migliori, che vorrebbe dire: "Me ne importa, mi sta a cuore, me ne preoccupo". Proprio il contrario del fascistico me ne frego. Ognuno -dice don Milani- deve sentirsi responsabile di tutto. Non ci si può nascondere dietro il comodo paravento dell’obbedienza passiva. Lo disse anche il gen. Von Keitel a Norimberga: "Troppo tardi mi sono accorto che l’obbedienza ha dei limiti". A un ordine delittuoso si ha il dovere di non obbedire. È scritto perfino nel nostro codice penale militare. Anche se il cardinale Florit, arcivescovo di Firenze, ha creduto di poter dire che è "praticamente impossibile all’individuo singolo valutare i molteplici aspetti relativi alla moralità degli ordini che riceve", don Milani è convinto che sia sempre illecito l’ordine di bruciare vivo un bambino, di avvelenare con i gas e sterminare la popolazione civile, di avviare milioni di innocenti alle camere a gas. E’ forse reato dire tutto questo?

In terzo luogo, le due lettere sono un’invocazione di leggi migliori, quasi un profetico anelare ad esse. Anche qui, si potrebbe discutere a lungo con don Milani. Egli si rallegra, da buon cattolico, da buon sacerdote, del continuo progredire delle leggi dello Stato. E aggiunge: "Lasciatemi dire, con buona pace dei laicisti, che esse vennero man mano avvicinandosi alla legge di Dio".

Non da laici o laicisti, ma da modernissimi studiosi della storia contemporanea, noi potremmo a nostra volta obiettare: lasciamo da parte le leggi di Dio (che non presumiamo di conoscere), e riconosciamo piuttosto -rovesciando, per così dire, la marcia di avvicinamento affermata da don Milani- che, dal Sillabo ad oggi, è stata la chiesa che ha cercato e cerca di avvicinarsi alla, un tempo esecrata, civiltà moderna, a principii di libertà, di rispetto delle coscienze, di eguaglianza scaturiti dall’illuminismo, dalla Rivoluzione francese, dal liberalismo, dai movimenti socialisti. Sia le dottrine della Chiesa, sia gli ordinamenti degli Stati, hanno sentito questo "segno dei tempi", questo portato della civiltà moderna, la quale è, veramente, la vincitrice. Ma è una vittoria ancora ben lungi dall’essere completa. L’arretratezza delle nostre leggi in fatto di obiezione di coscienza è la prova che c’è ancora molto cammino da percorrere. In questo, siamo perfettamente d’accordo con don Milani. Da posizioni diverse, ci indirizziamo verso lo stesso obiettivo, una riforma delle leggi antiquate. In questa volontà di battersi, don Milani ha saputo trovare accenti di rara nobiltà morale, un impeto di fede, una sete di assoluto, un ardore profetico che non possono lasciare indifferenti. E’ forse reato, tutto questo?

Infine, don Milani esprime un giudizio deciso sulla delittuosità di ogni guerra, nel presente e nel futuro. Non può più esistere, oggi, una guerra giusta, una guerra di difesa. Le prospettive di annientamento nucleare hanno ridotto ogni guerra a una disumana ecatombe. (Né c’è bisogno di pensare alla guerra atomica, per convincersi dell’assoluta disumanità della guerra d’oggi. Per esempio -e la notizia non è di fonte comunista, ma proviene dal corrispondente di un nostro giornale conservatore- nel Vietnam oggi si impiega una nuova arma americana, a mitraglie multiple, con radar che permette di colpire sempre e comunque: non è più l’uomo che colpisce, è la macchina...). Di fronte a questi orrori, è forse reato dire, come don Milani ha detto, che è in gioco la salvezza stessa dell’umanità?

Ecco perché ci sembra assurdo incriminare don Milani per la sua professione di fede. Sappiamo purtroppo quale fanatico odio avvolga gli obiettori di coscienza e chi, come don Milani, li difende, e anche chi sente il dovere di difendere uomini come don Milani. Ne volete un esempio fresco fresco? Una francese residente a Torino mi ha scritto, due giorni fa, questo amabile biglietto: "Monsieur le Magistrat, vous n’avez pas honte de vous ranger du côté de ce coquin d’un abbé don Lorenzo Milani qui soutient cette bande de lâches qui s’appelle "objecteurs de conscience"? Et d’achever votre article sur La Stampa en glorifiant ce hideux personnage? J’en informerai Mad. Jeanne Preda qui, dans son Borghese, ne plaisante pas et vous arrangera pour le fètes, soyez en sûr. Je vous méprise". Segue la firma.

Riepiloghiamo. Si può non andare d’accordo con don Milani. Ma non è con le manette che lo si potrà convincere del torto, posto che abbia torto, in tutto o in parte. Sulla questione di fondo, poi (cioè sul fondamento morale dell’obiezione di coscienza), egli merita non solo rispetto, ma gratitudine: perché è di quei rari uomini che annunciano e preparano leggi migliori in un mondo migliore. Il processo umano deve non poco a questi spiriti solitari, spesso singolari, ingenui, ostinati, assoluti, scomodi. In questo mondo così fragoroso d’armi -e non solo le armi dei militari, nucleari e convenzionali, ma le armi della politica, della ruse diplomatica, dei regimi e dei partiti di massa, delle propagande e dei mass media, in una parola del conformismo- un uomo puro come don Milani sarà forse, e purtroppo, destinato per molto tempo ancora ad essere non più che un profeta disarmato. Ma sarebbe una suprema vergogna per noi, per il nostro ordinamento giuridico e la nostra civiltà, per questa Italia democratica nata dalla Resistenza, se dovessimo anche vedere in lui un profeta ammanettato.

 

L'"ECO DELLA SCUOLA" CONTRO DON MILANI

di Virgilio Zangrilli

Il Ponte, Firenze, gennaio 1966, pagg. 126-128

Con don Lorenzo Milani (di cui il "Ponte" ha pubblicato nell'ottobre scorso la lettera ai cappellani militari, incriminata, nonché la più recente autodifesa) ci si può trovare d'accordo o no, in tutto o in parte. Quanto a me, non ho difficoltà ad ammettere che questi due documenti mi trovano del tutto consenziente almeno sulle questioni di fondo: valore etico-religioso, significato civico e riconoscimento giuridico dell'obiezione di coscienza; condanna delle guerre e di ogni altra violenza o forma di oppressione e discriminazione; necessità che la scuola sappia guardare in faccia ai problemi più pressanti dell'oggi, rivitalizzando il passato (demitizzandolo) piuttosto che contemplarlo con atteggiamenti arcadici, stabilire un nesso dialettico tra la storia già fatta e quella da fare, quella che faranno domani i nostri ragazzi d'oggi; conseguente ruolo dell'educazione, mai ancorata alla situazione esistente (che sarebbe un tradire i ragazzi avviandoli sulla strada del conformismo come "virtù civica cardinale") bensì tesa alla creazione del nuovo ("formare in loro -dice molto bene don Milani- il senso della legalità" ma anche, e soprattutto, "la volontà di leggi migliori, cioè il senso politico"). E potrei continuare. Circa taluni dissensi su qualche giudizio storico, e un più sostanziale disaccordo su problemi di metodo educativo (il che esula, in parte, dalla discussione sui due documenti), non è questo il momento di parlarne, anche se si tratta di questioni che possono sempre essere riprese.

Quel che ora m'interessa è la riaffermazione dell'elementare principio civile che il trovarsi in dissenso con altri non è ragione sufficiente per scaricargli sul capo intere colonne di contumelie velenose. Se non si è capaci di portare il discorso sul piano della pacata discussione a base di argomenti, dimostrazioni, giudizi ecc., meglio tacere. Ma i fascisti di casa nostra non hanno mai saputo apprezzare la virtù del silenzio. Da quegli analfabeti spirituali che furono e che restano, aprono bocca su tutto, tutto sconciando, anche gli argomenti più umani, che è come dire i più incomprensibili per le loro dure cervici, i più distaccati dalla loro natura.

Ed ecco lo "Specchio", nel numero del 7 novembre scorso, con un articolo gonfio di bile, dal titolo Il breviario del prete rosso. Ecco, a distanza di un mese, una neonata "Eco della scuola" diretta da Aristide Campanile (l'ispettore centrale del Ministero della P.I.?), nutrirsi del medesimo fiele e rigurgitarlo nella p. 7. (Prete e maestro esemplare?) a firma del "passatore": un passatore tutt'altro che "cortese". È di quest'ultima sortita che voglio occuparmi, considerato che la rivistina è diretta e redatta da uomini di scuola e che ha trovato immediatamente a sua disposizione i canali ufficiosi grazie ai quali è potuta giungere in ogni circolo didattico. Nessuno degli argomenti sollevati da don Milani viene affrontato con opposti argomenti a dimostrazione e giustificazione del dissenso. Nessuna valutazione, ad esempio, del dibattito oggi così vivo in Italia intorno all'obiezione di coscienza. "Il programma scolastico fra l'altro prescrive di suscitare nei fanciulli l'amore della Patria": dunque, addosso agli obiettori! Che poi essi chiedano di servire onorevolmente il paese in modi che non contrastino con la loro coscienza e col comandamento: "Tu non ucciderai!", che in molti altri paesi civili ciò sia stato loro concesso, che il modo migliore di amare la patria consista, secondo lo spirito della Costituzione e della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, nel coltivare sentimenti di solidarietà verso tutti i popoli, superando il concetto stesso di patria nazionale in una più vasta prospettiva di attivo amore fraterno per ogni uomo della terra, tutto ciò al "passatore" non interessa. Né gl'interessano i progetti di legge che attendono di essere discussi in parlamento, le molteplici voci, ferme e ricche di carità evangelica, levatesi recentemente nel Concilio Vaticano II, le posizioni già da tempo chiaramente prese dalle chiese cristiane separate, gli stessi riconoscimenti del fondamento morale ispiratore dell'obiettore che è dato ritrovare in non poche sentenze dei tribunali militari. Il filosofo Piero Martinetti ha scritto nobili parole intorno alla coscienza che, essendo luce divina, non può sottostare ad alcuna autorità esteriore. Sono parole che dovrebbero far riflettere un educatore. Ma forse il "passatore" non lo è, e quindi non può capire. Capisce almeno che Eichmann è stato condannato, assai prima che da un tribunale israeliano, dalla coscienza dell'umanità civile, per aver obbedito a leggi e ordini che riportavano la Germania indietro di millenni, nella notte dei tempi?

E c'è bisogno di richiamare alla memoria la nostra storia ultima, ricordare che gli antifascisti, i resistenti furono, in sostanza, tutti obiettori ai quali dobbiamo sia l'esserci scrollati di dosso un regime infame che ci aveva lacerato le carni e l'anima, sia le possibilità odierne di edificare una società più libera e più giusta? O l'esempio luminoso di Gandhi, che col metodo della nonviolenza e della resistenza e disobbedienza civile guidò il suo paese all'indipendenza?

Abbiamo sotto gli occhi esempi più recenti. Danilo Dolci, che con lo stesso metodo contrasta attivamente, in una tormentata zona della Sicilia occidentale, la mafia, le ribellioni violente degli oppressi, ogni altra forma di negazione e spreco della vita. Il leader integrazionista Martin Luther King, cui si deve se la lotta per il riconoscimento dei diritti civili ai negri non ha trasformato in fiumane di sangue le strade d'America. "Una legge ingiusta -l'aveva già scritto S. Agostino e lui ce lo ricorda- non è più una legge". Ma quando è ingiusta una legge? È poi tanto difficile giudicare e decidere? "Una legge ingiusta -risponde King- è un codice che non è più in armonia con la legge morale... Ogni legge che eleva la personalità umana è giusta. Ogni legge che degrada la personalità umana è ingiusta" (Cfr. "Azione nonviolenta", n. 11, 1964). Secondo la debole logica, e l'inconsistente coscienza, del "passatore" il principio sarebbe eversivo in quanto ciascuno giudicherebbe "col metro del proprio contingente e mutevole interesse". Di qui l'attacco finale, in un crescendo offensivo che alla sensibilità d'uno che s'occupi di educazione non può non risultare repellente: don Milani avrebbe espresso "teorie da folle", "da esaltato, da paranoico, schizoide, mitomane". Di qui il consiglio ai giudici di consultare, prima del processo, "alcuni testi di Freud".

Ora, non mi pare ci sia bisogno di rileggere Freud, o di possedere una notevole pratica psicanalitica, per capire quali istinti rimossi sollecitino l'inconscio del "passatore" senza ch'egli riesca a riportarli alla soglia della coscienza, Qui, se c'è uno che ha bisogno urgente di trattamento psicoterapeutico è lui.

Non posso chiudere senza far cenno all'aspetto umano del problema. Don Milani non s'è presentato alla prima udienza del processo perché gravemente ammalato. Ma anche sulla malattia, minacciosa e tale da richiedere (a quanto mi risulta) un sollecito ricovero in ospedale, questi suoi detrattori trovano il modo di ironizzare volgarmente. Avrebbero potuto informarsi. Barbiana e il Mugello non sono al Polo Nord.

E poi vengono a disturbarci i timpani con la loro retorica stantia sui valori dell'occidente cristiano, di cui si autoproclamano difensori ad oltranza. Si rendono conto del fatto che quanto scrivono non è né umano, né civile, né cristiano? Che è semplicemente ferino, cioè fascista? Il Vangelo lo hanno mai letto sentendosi salire sul viso il rossore della vergogna?

 

DON LORENZO MILANI FU UNO DEI PADRI

DELLA GENERAZIONE DI VIOLENTI CHE OGGI SPARANO?

di Gian paolo Meucci

La Discussione, Roma, 5 maggio 1980, pag. 23

Per iniziativa del Comune, in adesione ad un voto unanime del consiglio comunale, si è tenuto a Firenze un convegno sulla figura di don Milani a più di dieci anni dalla sua morte, a dimostrazione che la testimonianza profetica del priore di Barbiana conserva tutta la sua carica di validità e costituisce ancora, come è stato rilevato, un crinale fra l'ieri e l'oggi. Di don Milani prete e pedagogo molto si è scritto ed i relatori del Convegno hanno di nuovo proposto la singolarità delle linee del suo messaggio diventato patrimonio essenziale al quale attingere nel momento in cui vengono riproposte le tematiche di un nuovo modo di essere cristiano e educatore nella scuola d'obbligo, in una società nuova e in una comunità di cittadini e non più di sudditi. Mi sembra che oggi meriti però, particolare attenzione un momento alto della sua testimonianza: quello della critica del comunicato dei cappellani militari che tacciavano di viltà gli obiettori di coscienza, per la quale fu denunziato e accusato di istigazione a delinquere ed apologia di delitto.

GROSSI EQUIVOCI - Il suo grido nella lettera ai giudici che lo giudicavano (e poi lo condannarono, anche se la condanna non fu pronunciata perché nel frattempo era morto) che "l'obbedienza non era più una virtù", è una delle sue denunzie più forti e, fatalmente, la più equivocata. Come per l'altra, quella del "non bocciare" che ha espresso 1'esigenza di un impegno educativo nuovo e durissimo e che è stata, invece, interpretata come una dichiarazione di "resa" della scuola!

Il particolare interesse a tale testimonianza di don Milani mi sembra, oggi sgorgare dal fatto che è in atto un doveroso ripensamento, di fronte alla tragedia del terrorismo politico, su quanto avvenne in quel periodo storico: in quegli anni '60 in cui esplose la contestazione giovanile e la radicale messa in discussione dei rapporti di potere esistenti nella società.

Non possiamo, cioè oggi sottrarci all'esigenza di analizzare questi due fatti che videro protagonista don Milani: la ricordata sua denunzia su un certo tipo di obbedienza allo stato e alle sue leggi, e la sua conseguente condanna da parte dei giudici, tenuto conto che in una ideale antologia dei testi più significativi della contestazione deve essere posta, fra i primi, la sua risposta ai cappellani militari e la sua lettera ai giudici, e che il Parroco di Barbiana fu l'unico -pur nel pullulare successivo di scritti di ben più violenta contestazione- ad essere denunziato e condannato.

PADRE DELLA CONTESTAZIONE? - Dobbiamo, insomma chiedersi se don Milani, evidentemente al di fuori della sua volontà, debba ascriversi fra coloro ai quali può essere attribuita la responsabilità di non aver avvertito, e quindi, di non essersene preoccupato, della carica eversiva di certi messaggi di contestazione, con ciò facilitando il coagularsi di movimenti che hanno finito per non trovare altra via per assicurarsi un'identità politica che quella del terrorismo, diventando la manovalanza di propositi eversivi diretti e gestiti da centrali anche straniere.

A mio parere deve giungersi proprio alla conclusione opposta in quanto la sua condanna dimostra paradossalmente, che fu proprio perché il suo messaggio non fu compreso e recepito dalla società e dalla sua dirigenza politica, che si è verificato l'impazzimento successivo, la scelta di morte della violenza distruttiva.

Va innanzi tutto ricordato che 1'ubbidienza, per don Milani è l'unico modo di essere per un cristiano. Scriveva ad un seminarista proprio negli stessi anni della Risposta e della Lettera: "Io ero in seminario un fanatico dell'osservanza della regola... Come lo sono stato poi da prete... Questo è il prezzo che bisogna pagare se si vuol influire dal profo[n]do sulla società e sulla chiesa..."; come scriveva a don Antonio: "La storia l'insegna Dio e non noi, e l'unica cosa cui ambisco è di capire il suo disegno man mano che egli lo svolge, non ambisco a levargli il lapis di mano e di pretendere di diventare un autore della storia...". La storia della salvezza è quindi per ciascuno, la storia della sua obbedienza all'uomo e a Dio, perché non si può essere capaci di vivere nel cuore delle masse, essendone lievito, come nel cuore di Dio, se non si assume sulle nostre spalle il carico di tutti i condizionamenti umani e quindi, anche il carico dell'obbedienza alle "regole" che condizionano il nostro vivere associato sia come uomini nella società, che come fedeli nella Chiesa.

ERA UN OBBEDIENTE - La possibilità di essere lume e guida degli oppressi sta in questa capacità a farsi totalmente carico dei loro condizionamenti, sta nell'obbedire, perché solo così è possibile essere liberatori delle scintille divine esistenti nella natura e nell'uomo. Perché il credente sa che la divina grandezza del Cristo sta proprio nell'essersi fatto obbediente fino alla morte e alla morte per croce, essendo la croce anche la struttura che condiziona e alla quale si è inchiodati, come necessaria e insuperabile condizione per poter risorgere, per poterne essere liberati.

E don Milani fu così, sempre, l’uomo dell'obbedienza, fino al martirio perché fu riprovato dalla Chiesa e fu condannato dai suoi giudici: fu cioè, crocifisso dalle due strutture che intendeva modificare, migliorare, ma che sempre riconobbe e accettò senza mai porre in dubbio la loro legittimità.

Quando allora come prete ed educatore (ambedue, come lui stesso osservò "siedono fra passato e futuro e devono averli presenti entrambi") egli disse ai suoi e a tutti i giovani che l’obbedienza cieca a Cesare non era più una virtù, affermando il primato della coscienza, "della legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore" e che "una gran parte dell’umanità chiama legge di Dio", non sollecitava affatto all’anarchia. Non negava o fuggiva i condizionamenti dell'uomo e della società, [ma] riaffermava la necessità di un’obbedienza ancora più dura, come quella che richiedeva l'obbedienza alla volontà di Dio che è accettazione di essere inchiodati ad una croce.

Era il grido che sollecitava la presa di coscienza, invocandone la concreta realizzazione da parte dei detentori del potere, dell’acquisizione della dignità del cittadino e il rifiuto di essere suddito.

A tale grido non si rispose con un rinnovato impegno sociale e politico per sollecitare una crescita della coscienza, adeguata alle esigenze di una nuova civiltà e della mutazione antropologica che stava verificandosi nella disattenzione generale, ma si rispose con una condanna penale.

UNA LETTURA CORRETTA DELLA LEGGE - Si interpretò come istigazione a violare la legge, quello che era invece un appello ad apprezzare il valore della legge, proprio nel suo essere strumento caduco che deve essere modificato nel tempo per rispondere alle nuove esigenze, davvero come l'abito per un ragazzo che cresce da un giorno all'altro. Perché il senso e il valore dell’obbedienza alla legge positiva si radica nella consapevolezza che essa è uno strumento essenziale proprio in quanto deve continuamente cambiare. Chi ritiene di difendere la legge, assolutizzandola, presentandola come realizzazione della legge di Dio, è, di fatto, il vero istigatore alla sua disubbidienza, perché distacca la legge dall'uomo, privilegia il sabato rispetto all'uomo, considera gli uomini dei sudditi e non figli di Dio caricati dal peso di essere strumenti della sua opera creativa, in quanto chiamati a manifestare la sua volontà e a esplicitare la potenzialità presente in ogni creatura.

Don Milani a distanza di più di un decennio dalla sua morte, è ancora scomodo, perché ci costringe a non considerarci assolti da terribili colpe storiche, lui che fu ritenuto, da noi tutti, colpevole di un delitto. Ci aveva detto che non era più possibile invocare la cecità dell’obbedienza e che occorreva coinvolgere nella responsabilità della partecipazione tutti, se si voleva ritrovare le vie di una nuova e diversa legittimazione del potere dello Stato. Non lo abbiamo ascoltato, ed è stato spesso presentato, anche nel nostro mondo cattolico, come un esponente delle tensioni verso l'anarchismo che in quegli anni stavano manifestandosi. Oggi assistiamo ad un imbarbarimento crescente della vita associata nella quale diventa protagonista la violenza, quella illegale e quella legale che ad essa, purtroppo doverosamente, risponde. Il cittadino sta ridiventando suddito, perché non avverte più che la legge è il frutto di una decisione anche sua, e che è l’espressione dall'eterno drammatico processo che si svolge prima di tutto all'interno di ognuno di noi, nel quale la legge è sempre sotto accusa perché deve sempre confrontarsi con la legge di Dio.

Capitolo IV°

La scuola secondo Lorenzo Milani

Nel selezionare gli articoli per questa antologia, la scelta relativa al presente capitolo è stata sicuramente la più ardua ed anche, forse, la più opinabile: tanti mai sono stati al riguardo i contributi significativi nell’arco di questi trentacinque anni.

Quelli che qui sono riportati costituiscono comunque una scelta tra alcuni dei più noti, oltre che -certo- tra quelli di maggiore rilevanza.

Sull’Astrolabio del 21 maggio, Pietro A. Buttitta fornisce una lettura attenta e partecipe di Lettera a una professoressa. Sin dal sottotitolo l’autore evidenzia il carattere fondamentale del libro, il suo essere "la denuncia più violenta del classismo[,] dell’inefficienza, dell’ingiustizia del sistema scolastico" del nostro Paese, spingendosi poi ad affermare che "si desidererebbe una scuola di Barbiana ad ogni angolo, perché tutto venga rimesso in discussione e riscoperto e, per questo, ricompreso e amato".

E questo anche se "certamente non è facile condividere […] tutte le idee" dei ragazzi di Barbiana, che "esprimono la protesta del mondo contadino e propongono una rivoluzione culturale".

L’articolo di Aldo Visalberghi, che specifica di intervenire nella sua qualità di pedagogista, riconosce "la originalità e la forza stimolatrice" del libro. Ma è un non-pedagogista, Pio Baldelli, che -forse per primo- segnala un uso distorto ed in prospettiva assai negativo delle tesi della Lettera, quando fa notare come la televisione italiana, in un servizio in cui si intervistavano i ragazzi di Barbiana, avesse presentato come "un invito all’indulgenza, frammenti dei loro ragionamenti sul tema delle bocciature troppo severe".

Sin dall’inizio, come ben mostra Baldelli, il messaggio milaniano sulla scuola veniva quindi da molte parti travisato e distorto, trasformando in una equivoca e fondamentalmente dannosa indulgenza, quel "come bisogna essere per fare scuola", quell’indicazione che già in Esperienze pastorali don Lorenzo traduceva in un "avere le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici", nel "non essere interclassisti, ma schierati".

Manlio Cancogni, dopo aver annotato lo "stile affascinante" del "libro più straordinario che sia uscito in Italia" in quegli anni, ed averne individuato il carattere di "requisitoria" su scuola, sistema didattico, lingua, si sofferma su quest’ultimo tema, riconoscendone la "portata addirittura rivoluzionaria" in un Paese in cui la lingua "ufficiale" -quella della scuola, dei politici professionisti, dei tribunali, delle università- era (e lo è tuttora) una lingua spesso criptica, per iniziati; in sostanza artificiosa.

In un articolo apparso ad agosto del ’67 su La Fiera Letteraria, Giorgio Pecorini riporta ampi stralci di una lettera -allora inedita- di Milani, laddove il Priore ribadisce con forza la genesi collettiva della Lettera a una professoressa, additando l’esistenza di "regole oggettive" per lo scrivere, grazie alle quali un giorno "la classe operaia saprà scrivere meglio di quella borghese".

Sul Corriere della sera del 1° settembre ’67 appare un articolo a firma di Alberto Sensini, per il quale il libro "vale più per i problemi che solleva che non per il modo in cui li imposta suggerendone la soluzione", dato che quest’ultima appare all’autore "di irritante massimalismo populistico".

Si tratta quindi di un sostanziale attacco ai contenuti della Lettera, pur tra numerosi distinguo e qualche consenso marginale: ed avrà facile gioco Pecorini a rilevarlo, in un lungo articolo pubblicato da Comunità. Replicando a questo come ad altri interventi a proposito della Lettera, Pecorini nota come alla questione di fondo posta dal libro -il non dover perdere per strada i figli dei poveri-, o non si sia data risposta, oppure si sia negato il problema. Soltanto ad un articolo di un uomo di scuola, il professor Gian Giuseppe Moroni, apparso sul numero di giugno-luglio de L’Educatore italiano, egli attribuisce il merito di aver riconosciuto che "è necessario rimettere in discussione tutto", perché "perderli per strada [gli allievi] non è un fatto amministrativo: è un fatto morale, che impegna appunto la nostra moralità professionale".

In un articolo del ’77, Lucio Lombardo Radice, (a cui il citato articolo di Pecorini riconosce il merito di aver risposto, dieci anni prima, sia pure "a titolo quasi personale" all’accusa dei ragazzi di Barbiana nella quale si "contestava la capacità e la volontà del partito comunista italiano a impostare, dalla fine della guerra a oggi, una politica culturale e scolastica sulla misura dei bisogni reali dei contadini e degli operai italiani") dopo aver esaltato "la eccezionalità dell’uomo", aspro ed ‘eccessivo’ ("evviva gli uomini "eccessivi", senza i quali il mondo non si muove e non avanza"), ricorda che in Milani "l’ispirazione ideale, e lo scopo ultimo, rimangono sempre di carattere religioso, cristiano" e che "la sua più grande scoperta" è stata quella che "il privilegio di classe è già dentro la cultura scolastica tradizionale, e non consiste solo nella esclusione, o nella selezione precoce".

A titolo di ulteriore documentazione, abbiamo voluto anche inserire quanto uno studioso milaniano spagnolo, Josè Luis Corzo Toral, ha affermato in una sua relazione al Convegno di Studi fiorentino dell’aprile 1980, a proposito della risonanza avuta nel proprio Paese dall’esperienza di Barbiana.

Corzo, il quale scrive esservi in Milani, "una tensione religiosa difficilmente identificabile entro i limiti di sistemi religiosi concretamente definiti", termina dicendo che "la voce di don Milani deve continuare a risuonare alle nostre orecchie di sacerdoti, di cristiani, di maestri, di cittadini e colpire duramente le nostre coscienze".

 

 

LA STALLA E LA SCUOLA

di Pietro A. Buttitta

L’Astrolabio, Roma, 21 maggio 1967, pagg. 40-43

I ragazzi di don Milani tornano alla ribalta della cronaca con una interessantissima "Lettera a una professoressa" di cui anticipiamo i brani più stimolanti. E’ la denuncia più violenta del classismo[,] dell’inefficienza, dell’ingiustizia del sistema scolastico italiano che sia stata formulata in questi anni.

"Le maestre sono come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire". Una frase a caso, ad apertura di pagina. Ho appena ricevuto una copia della "Lettera a una professoressa" scritta dai ragazzi della Scuola di Barbiana; già, la scuola di un prete, di quel don Lorenzo Milani che è stato mandato nel Mugello, alcuni anni fa, per scontare il peccato di aver pubblicato un libro anticonformista. Lo stesso che si è fatto incriminare per le sue opinioni sull’obiezione di coscienza e sul servizio militare. Questa volta non è lui a scrivere ma i ragazzi della sua scuola, che in un foglietto di presentazione del loro lavoro così mi scrivono: "...Ci preme molto che nelle sue recensioni sia messo in risalto il fatto che l’opera è frutto di un lavoro collettivo, e che quello stile apparentemente personale non è altro che il risultato di una faticaccia che abbiamo fatto tutti insieme per 10 mesi. Il Priore si scusa di non poter scrivere personalmente, ma in questi giorni sta molto male. Per il momento si trova giù a Firenze, perché ha bisogno di farsi le radiazioni...".

I ragazzi di Barbiana. A me, a leggere la loro "Lettera a una professoressa", mi pare di rivederli, uno a uno, i ragazzi di Barbiana, quelli che ho conosciuto e che mi hanno messo qualche volta in imbarazzo con le loro domande sul mio mestiere di giomalista-scrittore, sulla possibilità di seguire la verità e di mantenere la libertà in un lavoro come il mio; ma anche quelli che non ho conosciuto, perché nella loro "Lettera" ci sono le storie di ognuno di loro. Per esempio di ore di cammino sui sentieri delle colline per raggiungere la Prioria di Barbiana, partendo dalle case dei pochi contadini che sono rimasti nel Mugello. Si dice Barbiana, si dice il Mugello ed è come dire Firenze, un posto che si può raggiungere in fretta da un altro qualunque del nostro paese. Firenze, il Mugello, ma Barbiana? In cima a una collina perduta, con un prete diverso dagli altri preti e una scuola che, a non averla vista al lavoro, sembrerebbe nata dalle speculazioni di un pedagogo utopista. Siamo tutti abituati a ben altre scuole, tanto che quella di Barbiana ci sembra venire dalla luna. Ora, a ricordarmela, ecco questa "Lettera a una professoressa", che, ne sono certo, farà arrabbiare, ma proprio arrabbiare, tanta gente, tanta e poi tanta che, per mio conto, basterebbe soltanto quest’effetto a spingermi a propagandarla. In questo paese, infatti, c’è un tale affannarsi a smussare gli angoli di ogni possibile frizione, un tale impegnarsi nella ricerca del quieto vivere, che per non sentirsi soffocare si desidererebbe una scuola di Barbiana ad ogni angolo, perché tutto venga rimesso in discussione e riscoperto e, per questo, ricompreso ed amato.

Comunque, a parte gli sfoghi personali, che non sono materia da giornale, lasciamo la parola, il più possibile, ai ragazzi di Barbiana e al loro Priore, perché è certo che dietro alle loro parole ci si sente anche Lorenzo Milani, e non potrebbe essere diversamente, visto che per fare una scuola non bastano soltanto dei ragazzi ma ci vuole anche un maestro, un maestro disposto ad insegnare ma anche ad imparare, proprio come Lorenzo Milani, che dai suoi ragazzi contadini ha imparato a far il prete e il maestro più di quanto non avesse potuto fare nei seminari dove insegnano quegli altri preti che se parlano di Lorenzo Milani si fanno il segno della croce, per esorcizzarne la presenza.

"Perché la Lettera". L’occasione della "Lettera" ai ragazzi l’ha offerta la bocciatura, in una scuola normale, di uno di loro. Uno che stimavano, che sa quanto loro e più di loro su molte cose, soprattutto su quelle cose (la storia, la Costituzione, il razzismo, il sindacato, le lingue straniere, eccetera) che la scuola trascura anche se sono previste dai programmi. Così hanno deciso di scrivere alla professoressa che lo ha bocciato, il loro tono è risentito ma non per questo motivo quello che dicono è meno vero. Non è facile, certamente non è facile, condividere tutte le loro idee. Quella sul celibato degli insegnanti, per esempio. Impossibile negarle, però, per la semplice ragione che esse sono frutto non tanto di uno stato d’animo passeggero ma di una lunga esperienza. Alla fine, dopo la lettura di questa "Lettera", che è divisa in parti: "La scuola dell’obbligo non può bocciare", "Alle magistrali bocciate pure ma..." e "Documentazione", la scuola italiana di ogni ordine e grado ne esce male, molto peggio di quanto fosse prevedibile e soprattutto di quanto non siano disposti ad ammettere gli stessi suoi uomini che si battono per la riforma. E con la scuola, ovviamente, ne escono male gli insegnanti. Di mio, almeno ora, non mi sento di aggiungere altro. Cercherò di riassumere quanto hanno scritto i ragazzi di Barbiana, ricorrendo il più possibile alle citazioni, per dare un’idea, spero precisa, di questa loro requisitoria.

All’inizio la lettera sembra molto personale, soltanto lo sfogo di un allievo bocciato nei confronti di una professoressa, poi, piano piano, dall’io iniziale è come se si passasse al noi e il documento si fa corale.

"...non alzavo gli occhi da terra". "Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti". La lettera si apre così, poi si passa alla descrizione dell’ambiente originario del bocciato e del suo carattere: "Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra". Il bocciato descrive la sua timidezza. "Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è di quelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma... Più tardi ho creduto che la timidezza fosse un male dei montanari. I contadini del piano mi parevano sicuri di sé. Gli operai poi non se ne parla. Ora ho visto che gli operai lasciano ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e tutti i seggi in parlamento. Dunque son come noi. E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è né viltà né eroismo. E’ solo mancanza di prepotenza. Alle elementari lo Stato mi offrì una scuola di seconda categoria. Cinque classi in un’aula sola. Un quinto della scuola cui avevo diritto. E’ il sistema che adoperano in America per creare la differenza tra bianchi e neri. Scuola peggiore ai poveri fin da piccini". E il bocciato va avanti descrivendo come dalle sue parti, dopo le elementari, non c’erano le altre tre classi alle quali la legge gli dà diritto e come i genitori, pur di farlo andare avanti, decisero di mandarlo alla scuola di Barbiana, malgrado fossero di "un altro popolo e lontani". Fu il padre ad accompagnarlo: "Ci si mise due ore perché ci facevamo strada col pennato e la falce. Poi imparai a farcela in poco più di una ora". Ed ecco la descrizione della scuola: "Barbiana quando arrivai non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava. D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica ad accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin da quel giorno che avrei insegnato anch’io".

"La scuola è sempre meglio della merda...". Ma a Barbiana non c’è ricreazione né vacanze, così tutti i "borghesi" che capitano criticano queste abitudini; per tutti rispose Lucio che aveva 36 mucche nella stalla e disse: "La scuola sarà sempre meglio della merda". "Questa frase -aggiunge il testo- va scolpita sulla porta delle vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini sono pronti a sottoscriverla" anche se voi dite che i ragazzi odiano la scuola. "Noi contadini non ci avete interrogati. Ma siamo un miliardo e novecento milioni... Tutta la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi". Un anno dopo il bocciato era già maestro e se sbagliava qualcosa "era un sollievo per i ragazzi. Si cercava insieme. Le ore passavano serene senza paura e senza soggezione. Lei non sa fare scuola come me".

Poi arriva la scuola media a Vicchio, che è il paese più vicino a Barbiana, e gli scolari-maestri aumentano, aumentano perché a valle li hanno bocciati. Bravi ragazzi ma "contorti", per esempio: "Se vedevano un galletto su una gallina si davano le gomitate come se avessero visto un adulterio". Le bambine del paese non andavano però alla scuola di Barbiana: "Forse la mentalità dei genitori. Credono che una donna possa vivere anche con un cervello di gallina. I maschi non le chiedono di essere intelligente. E’ razzismo anche questo". Fra gli altri arrivarono anche Sandro e Mauro, bocciati ambedue. Sandro era stato giudicato un "cretino", ma "a Giugno il cretino si presentò alla licenza e vi toccò passarlo".

Mauro era, dalla scuola normale, considerato un delinquente e, malgrado tutti gli sforzi, fu ancora una volta bocciato perché non si sapeva esprimere. Scrivono i ragazzi: "Bisogna intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro". E si va avanti, in una polemica sulla lingua, che si fa ancora una volta polemica di classe. Ed ecco l’esempio del tema d’esame, della traduzione dal francese, dall’inglese, tutti costruiti in modo da costituire un trabocchetto, con eccezioni su eccezioni e nessun riferimento alla vita pratica, così i ragazzi studiano senza amore, col solo scopo di ottenere il foglio di carta, commentano quelli di Barbiana: "Per studiare volentieri nelle vostre scuole bisognerebbe già essere arrivisti a 12 anni". Da questo punto comincia la polemica diretta con gli insegnanti. L’occasione viene offerta ai ragazzi di Barbiana da una semplice osservazione, essi hanno notato il testo di un problema di geometria: "Un solido è formato da una semisfera sovrapposta a un cilindro la cui superficie è tre settimi di quella... Nella Nuova Media queste cose non si vedranno più. I problemi partiranno da considerazioni di carattere concreto. Difatti la Carla quest’anno alla licenza ha avuto un problema moderno a base di caldaie: "Una caldaia ha la forma di una semisfera sovrapposta..." risultato: ventisei bocciati su ventotto", mentre il professore è andato a raccontare in giro "che gli era toccata una classe di cretini". Rimedio? I ragazzi di Barbiana propongono: "Un bel sindacato di babbi e mamme capace di ricordarvi (agli insegnanti, n.d.r.) che vi paghiamo noi e vi paghiamo per servirci, non per buttarci fuori".

Come giocare il popolo sovrano. I motivi di contrasto fra la scuola di Barbiana e la scuola in generale non si riducono a fatti come quello ora ricordato, vanno più oltre. I ragazzi di Barbiana dedicano due ore al giorno alla lettura dei giornali, ridono se si trovano in mano Omero tradotto dal Monti: "Uno che scrive in una lingua che non era parlata neppure al tempo suo", e gli preferiscono il contratto sindacale dei metalmeccanici. Chiedono alla professoressa i ragazzi: "Lei signora lo ha letto? Non si vergogna? E’ la vita di mezzo milione di famiglie. Che siete colti ve lo dite da voi. Avete letto tutti gli stessi libri. Non c’è nessuno che vi chieda qualcosa di diverso".

Ma ecco la scuola media unica. Dicono i ragazzi: "Abbiamo letto la legge... La maggioranza delle cose scritte lì a noi ci vanno bene... è dispiaciuta alle destre. E’ un fatto positivo. Fa tristezza solo saperla nelle vostre mani. La rifarete classista come l’altra?". Sembrerebbe di sì, visto che il preside di una scuola di Firenze ha detto ad una mamma preoccupata per il suo figliolo: "Non si preoccupi, lo mandi da me. La mia è la media meno unificata d’Italia". "Giocare il popolo sovrano -aggiungono i ragazzi- è facile. Basta raccogliere in una sezione i ragazzi per bene". E il doposcuola? "Nel primo anno della nuova media il doposcuola statale ha funzionato in quindici comuni sui 51 della provincia di Firenze. Nel secondo anno in sei comuni, raggiungendo il 7,1 % dei ragazzi. L’anno scorso in cinque comuni... Il Sindaco di Vicchio, prima di riaprire il doposcuola comunale chiese il parere degli insegnanti di Stato. Arrivarono quindici lettere. Tredici contro e due favorevoli".

A questo punto i ragazzi abbandonano "le posizioni troppo personali" e scendono sul "terreno statistico", il compito delle statistiche lo hanno affidato a Giancarlo, un ragazzo di quindici anni giudicato dalla scuola normale "disadatto agli studi" e bocciato. Giancarlo ha scoperto che, come lui, in un anno la scuola dell’obbligo boccia 1.031.000 scolari. Ed è qui che i ragazzi riescono a dimostrare, cifre alla mano e grafici eloquentissimi, che una maestra che in prima elementare aveva 32 alunni, quando sarà arrivata alla quinta ne avrà perduti venti. La sua classe ne avrà sì ventotto, ma alla cifra sarà giunta con l’aggiunzione dei respinti che ha via via ereditato da chi l’avrà preceduta. Troppo lungo seguire qui tutti i passaggi, tutte le sottrazioni, tutte le eliminazioni di ragazzi poveri dalla scuola. Il dato conclusivo è questo: "La terza media (cioè a conclusione dell’intero ciclo della scuola dell’obbligo -n.d.r.) ci sono solo undici dei trentadue ragazzi che la maestra ha avuto in consegna alla prima elementare. A questo punto quelli di Barbiana scoprono che i "figli di papà" sono riusciti a farcela tutti. Gli altri no. E scrivono: "Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri".

Anche la Costituzione della Repubblica sta dalla parte dei ragazzi di Barbiana, e loro, che l’hanno studiata, lo sanno benissimo. Sanno di aver diritto alla scuola e che è "compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana..." eccetera. "Il babbo di Mauro (uno dei bocciati -n.d.r.) -aggiungono i ragazzi- a 12 anni andò a lavorare da un fabbro e non finì neanche la quarta. A 19 anni andò partigiano. Non capì bene quello che faceva. Ma certo lo capì meglio di voi. Sperava in un mondo più giusto che gli facesse uguale almeno Mauro. Mauro che allora non era neanche nato. Per lui l’art. 3 suona così: "E’ compito della signora Spadolini (cioè l’insegnante alla quale i ragazzi si rivolgono, n.d.r.) rimuovere gli ostacoli..." Fra l’altro vi paga bene. Lui che prende 300 lire l’ora a voi ve ne dà 4300. Ed è disposto a darvene anche di più purché facciate un orario un po’ più decente. Lui lavora 2150 ore l’anno. Voi 522".

"Riprenderebbe il mitra". I ragazzi sanno che su queste cifre si accenderà la battaglia più grossa e che a causa di esse si troveranno contro quasi tutti gli insegnanti d’Italia. Così, in nota, precisano: "Lo stipendio netto di un insegnante della scuola media inferiore va da un minimo di 1.223.006 lire l’anno (prima classe di stipendio, nessuno scatto) a un massimo di 3.311.000 (quarta classe di stipendio, diciassettesimo scatto). L’orario di cattedra va da un minimo di 468 ore l’anno (lingue straniere e matematica) a un massimo dl 540". E via con le proporzioni. Gli insegnanti vengono ancora accusati di trascurare la scuola dei poveri per le ripetizioni ai figli dei ricchi. Se il padre di Mauro lo sapesse "riprenderebbe il mitra".

E la requisitoria va avanti. Perché la scuola è fatta così? Gli insegnanti sanno o non sanno, così facendo, di servire il padrone? Perché non propugnano una riforma della scuola basata sul tempo pieno? Siamo alla parte del libro che propone le riforme, che dà indicazioni, certamente molte sembreranno strane, azzardate, persino crudeli. Ma i ragazzi non sembrano preoccuparsene e insistono: "Buttiamo giù la maschera. Finché la vostra scuola resta classista e caccia i poveri, l’unica forma di anticlassismo serio è un doposcuola che caccia i ricchi". "Le uniche organizzazioni di classe sono i sindacati. Dunque il doposcuola tocca a loro". Qualcuno, a questo punto, giudicherà questi ragazzi e il loro Priore un po’ cinesi. Li accuserà un po’ di tutto, perché anche loro se la sono presa con tutti, dai preti ai comunisti. Le loro opinioni scandalizzeranno tutti noi che viviamo o fingiamo di vivere nella società del benessere. Sembrerà a molti che esse andrebbero benissimo per Fidel Castro o anche per Mao. Non per i noi. I ragazzi di Barbiana, infatti, esprimono la protesta del mondo contadino e propongono una rivoluzione culturale (usiamo l’espressione a ragion veduta, pensando a quello che hanno scritto a proposito del tempo libero, dei divertimenti, della TV, dei giornali sportivi, delle vacanze) senza violenze e senza sfilate ma non per questo meno dirompente. Sulla scuola, sugli insegnanti, sulla nostra società in generale danno giudizi così sferzanti che è difficile non restarne irritati. Il fatto è che essi si considerano molto più vicini ai quasi due miliardi di contadini sparsi per il mondo che a noi. Essi preferiscono solidarizzare con i negri d’America o del Sud Africa, con i vietnamiti e con i sudamericani, con quanti altri patiscono un’ingiustizia piuttosto che con uno qualsiasi di noi. Con un noto esponente del movimento del Black Power essi ripetono: "Non mi fido di un solo uomo bianco". E per questo potranno apparire forse un po’ anarcoidi. Malgrado tutto però non hanno perso la speranza di essere ascoltati. Alla fine dalla loro "Lettera", il maggiore degli autori, il bocciato alla licenza magistrale parla di vendetta per dire: "Mi avete fregato di nuovo come sputare in terra. Ma non cedo. Sarò maestro e farò scuola meglio di voi". E gli altri aggiungono: "La seconda vendetta è questa lettera. Ci abbiamo lavorato tutti insieme. Ci ha lavorato persino Mauro. Ha il babbo all’ospedale. Avesse avuto l’anno scorso lo sguardo a uomo che ha ora. Ormai per la scuola è troppo tardi, in casa hanno bisogno della sua busta d’apprendista. Ma quando ha saputo della lettera ha promesso di venire qualche domenica a aiutarci. Finalmente c’è venuto. L’ha letta. Ci ha indicato parole e frasi troppo difficili. Ci ha ricordato qualche cattiveria saporita. Ci ha autorizzati a metterlo in berlina. E’ quasi l’autore principale. Ma non vi consolate per così poco. All’anima ce l’avrete voi. Non si sa ancora esprimere. Ora siamo qui a aspettare una risposta. Ci sarà bene in qualche istituto magistrale, qualcuno che ci scriverà: "Cari ragazzi, non tutti i professori sono come quella signora. Non siate razzisti anche voi. Anche se non sono d’accordo su tutto quello che dite, so che la nostra scuola non va. Solo una scuola perfetta può permettersi di rifiutare la gente nuova e la cultura diversa. E la scuola perfetta non esiste. Non lo è né la nostra né la vostra..." Aspettiamo questa lettera. Abbiamo fiducia che arriverà".

Che dire? Tutto quello che pensano questi ragazzi e il loro Priore non potevo riferirlo. La loro "Lettera" uscirà in questi giorni, edita dalla Libreria Editrice Fiorentina. Chi la leggerà vi troverà cose, molte cose, che non sono stato capace di riassumere in un solo articolo. I ragazzi di Barbiana me lo perdoneranno certamente, o forse no. A mia volta posso dire loro: Cari ragazzi, se la scuola e i maestri perfetti non esistono, non esistono neppure gli scrittori e i giornalisti perfetti. Ho fatto quel che ho potuto e saputo. Non è detto che io abbia imparato completamente ad esprimermi. Ci sto provando. Un po’ come voi. Vi saluto con affetto, vostro

PIETRO A. BUTTITTA

 

LETTERA DA BARBIANA

di Maria Gloria Parigi

Il Ponte, Firenze, 31 maggio 1967, pagg. 673-675

Farà più male alla reazione di una grande battaglia perduta. Ancora non se ne sono accorti o allontanano inconsciamente il momento di prenderne atto, ma presto scatenerà una bufera. Non sono grida di accusa, sono cose che accusano. Ci si potrebbe aspettare una lettera di rivalsa di otto ragazzi montanari contro una professoressa inconsapevolmente classista e prevaricatrice (v. SCUOLA DI BARBIANA, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, maggio 1967); invece è la testimonianza e il messaggio di un uomo che ha cominciato da se stesso a dimostrare che il fine giusto della vita intesa cristianamente è dedicarsi al prossimo, con tutti i corollari che ne discendono, e che proprio per questo può non parlare lui ma far parlare i ragazzi. Ma il prossimo che don Lorenzo Milani si è scelto una volta per tutte -e ha insegnato ai ragazzi della sua scuola- è il povero, non il ricco. Il ricco ha già avuto troppo: tutto quello che c'è nel mondo è del ricco o per il ricco, la scuola per prima; che pure dovrebbe essere lo strumento più adatto a riscattare le differenze -non certo di natura, ma di ambiente[-] e le ingiustizie sociali conseguenti. Invece, proprio la scuola è sotto accusa e la scuola pubblica in particolare, in quanto specchio inesorabile di una società sostanzialmente vecchia e ipocrita che tenta di riprodurre se stessa in modo statico. Viene in mente il "quieta non movere, mota quietare" del Maestro di Vigevano. Ma la carica dirompente è diversa: in questo osservatorio sui monti si lavora duro per dodici ore al giorno, senza tante tenerezze fisio-psico-medico-pedagogiche. Dalla parte dei poveri e con i poveri, non "a capo" dei poveri. Disciplina e scenate in questa scuola, ma il più ciuco è esaltato, per lui si fa scuola, non per quelli avvantaggiati dai cromosomi del padre medico. Vi regna l'interesse e il pieno tempo, il principio del recupero a tutti i costi di qualsiasi ragazzo e non la selezione. Non vi si ricerca una "abilità in un rito convenzionale", ciò che più corrisponde al cliché degli insegnanti che si limitano a controllare se il ragazzo "corrisponde" o no. A costo, magari, di perdere tutto il poco tempo messo a disposizione (a loro e da loro) per fare gli "esami", che sono il frutto di una scuola concepita per i privilegiati che "sanno già" e che vanno, se mai, messi solo alla prova. Sistema infallibile per tasse "indolori" della più subdola specie da parte dei ricchi sui poveri. Ma ecco una denunzia che dovrebbe far tremare l'edificio fittizio della nostra scuola pubblica: "al tornitore non si permette di consegnare solo i pezzi che son riusciti. Altrimenti non farebbe nulla per farli riuscire tutti". Agli insegnanti sì. Perché? Certo è molto comodo: ci si dimentica prima dei ragazzi "uccisi" e, nel fare il "bilancio" dei ragazzi in 3a media, si può perfino credere di averne perduti per strada dalla 1a solo 4 o 5. Ma non si sono fatti i conti con lo sguardo ben fisso alla integrità della classe di partenza, come si è fatto a Barbiana nelle statistiche viventi di colori e di nomi veri, di ragazzi con mamme e babbi che sanno parlare o stanno zitti. "A noi non c'è toccato intelligente". Troppo comodo per la mezza coscienza e la pigrizia di insegnanti, presidi, direttori, provveditori, legislatori, parlamentari e ministri.

Il fatalismo è un utile pretesto. E la Costituzione, dove la mettiamo? "...rimuovere gli ostacoli...". A chi spetta se non alla scuola, specie nell'accezione della "scuola dell'obbligo"? Chi deve assumersi questo compito, se non gli insegnanti? Altro che bocciare senza rimpianti o far ripetere l'anno ai diseredati e dare ripetizioni ai figli dei privilegiati. Un atto di accusa che ci fa tutti tremare, nessuno escluso. Un libro denso di epigrammi, talmente fuso nel tono vibrante di invettiva trattenuta per virile ripensamento, così lirico e umano e candido da scuotere qualsiasi scetticismo. Un mosaico riuscito, sotto l'occhio vigile e la mano forte del maestro. Anche le statistiche e i grafici fanno parte dell'opera. "L'indignazione fa poesia": a dirlo è Giovenale, un moralista. Ebbene, anche questo libro è un'operetta morale che non può essere sottovalutata. Discutibile l'assunto teoretico -che del resto per me non è nuovo, né è nuova la polemica di carattere ideologico con don Milani- ma accettabile per tutti il suo messaggio morale. Per noi è auspicabile una diversa dialettica a livello operaio (perché anche i contadini nella nostra società non possono essere concepiti che come operai specializzati), al di là di una situazione eccezionale e volontaristica come Barbiana. Infatti è un esempio generoso ma "fuori tempo", fuori dell'insegnamento machiavellico-vichiano che ci induce a seguire lo sviluppo economico-sociale e non a tornare indietro.

L'esperimento meraviglioso di Barbiana è, malgrado tutto, legato a un'economia arretrata: troppa poca gente, troppi pochi mezzi per permettere il plus-valore alla base del progresso. Bisogna poter venir via da centri di vita troppo ristretti come questi: soprattutto perché di don Milani ce n'è uno per generazione o giù di lì. Ci vogliono scuole consolidate, pubbliche, a tempo pieno e col preciso intento di riscattare i poveri e quelli che "hanno avuto meno"; spesso più per l'isolamento in cui sono vissuti per generazioni che per miseria di denaro. Una scuola intesa come ricerca di giovani aiutati dai loro insegnanti, come comunità di lavoro in cui può benissimo determinarsi una gerarchia autonoma secondo le varie capacità senza conculcare i meno dotati, ma senza frustrare i migliori. La discussione sui metodi di don Milani potrebbe naturalmente essere approfondita, ma certo non si può prescindere né dalle critiche che i suoi ragazzi hanno fatto né dall'immagine di una scuola e di una società completamente diverse.

 

POLEMICO LIBRO DI DON MILANI CONTRO LA SCUOLA CHE BOCCIA

Il prete che difendeva l’obiezione di coscienza

di Aldo Visalberghi

La Stampa, Torino, domenica 2 luglio 1967, pag. 12

Il nome di Don Lorenzo Milani, il sacerdote toscano "ribelle" scomparso in questi giorni, era diventato noto al grande pubblico per la sua coraggiosa difesa degli obiettori di coscienza, che gli era valsa un processo per apologia di reato (assolto in tribunale, avrebbe dovuto affrontare quest'ottobre il processo di appello). Ma l'attività principale di Don Milani è stata di natura squisitamente pedagogica, ed è dovere di un pedagogista ricordarla e farla conoscere almeno per quanto riguarda il contenuto essenziale dell'ultimo scritto da lui curato (Lettera a una professoressa, Libreria edit. Fiorentina, L. 700). Il libro non reca il suo nome ma quello della sua "scuola", una singolare scuola media privata, da lui curata a Barbiana di Vicchio, nel Mugello.

In effetti il libro è scritto da 8 allievi o ex allievi di Don Milani, ed alla sua preparazione e compilazione molti altri hanno contribuito, ivi compreso l'Istituto Centrale di Statistica che ha fornito alcuni dati non precedentemente pubblicati, indispensabili alle elaborazioni statistiche di cui il libro si avvale per documentare la sua tesi. Ma la "regia" del lavoro fu sua, di Don Milani, la scrittura risente del suo stile secco, preciso, impietoso. "Diffondete il libro" raccomandava sul letto di morte (era perfettamente consapevole che la leucemia non perdona) agli amici che gli chiedevano cosa potessero fare per lui. E il libro ben merita di essere diffuso, per l'originalità della concezione, la ricca sostanza di documentazione e di idee, la vivacissima e sintetica esposizione. Non è facile concordare in tutto con le sue tesi, ma impossibile non riconoscerne la originalità e la forza stimolatrice.

"La scuola dell'obbligo non può bocciare", è il tema di tutta la prima parte del libro. E invece boccia al punto che in quinta elementare il 41,6 per cento è in ritardo per una o più ripetenze, in terza media lo è il 42,7 (ma in questa seconda percentuale non figurano più quelli che intanto la scuola l'hanno abbandonata del tutto, o a forza di bocciature hanno passato l'"età dell'obbligo" senza mai arrivare in terza media).

Questi sono dati nazionali (relativi all'anno scolastico 1963-1964). Per sapere chi siano in prevalenza i bocciati i ragazzi di Don Milani hanno fatto delle inchieste parziali in 14 scuole di varie regioni, e ne è emerso che i bocciati sono in gran maggioranza i più poveri, i contadini piuttosto che i non contadini, quelli che vivono in case isolate piuttosto che quelli che vivono in paese. Ma "quando i professori videro queste tabelle dissero che era un'ingiuria alla loro onorabilità di giudici imparziali. La più accanita protestava che non aveva mai cercato e mai avuto notizie sulle famiglie dei ragazzi: -Se un compito è da quattro io gli dò quattro.- E non capiva, poveretta, che era proprio di questo che era accusata. Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali".

Ma è possibile promuovere tutti? Si, risponde Don Milani, con una scuola a pieno tempo, seria, impegnata, con classi differenziali e di aggiornamento, volta ad insegnare davvero prima che a giudicare. Nella scuola di Don Milani "non c'era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica. Nessuno di noi se ne dava un gran pensiero perché il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che veniva a visitarci faceva una polemica su questo punto". La scuola durava tutto il giorno, e si fondava largamente sul mutuo insegnamento: "Insegnando imparavo tante cose. Per esempio ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia".

Qui è il particolare "classismo" di Don Milani, già così irruente e radicale nelle sue Esperienze pastorali del '58. Egli non ama i transfug[h]i di classe, nemmeno se selezionati perché "capaci e meritevoli". "Fra gli studenti universitari i figli di papà sono l'86,5 per cento. I figli di lavoratori dipendenti il 13,5 per cento. Fra i laureati i figli di papà 91,9 per cento, figli di lavoratori dipendenti 8,1 per cento. Se i lavoratori facessero gruppo a sé potrebbero significare qualcosa. Ma non lo fanno. Anzi i figli di papà li accolgono come fratelli e gli regalano tutti i loro difetti. In conclusione 100 per cento di figli di papà".

Alla possibile obiezione che si boccia il più delle volte proprio per le insufficienti capacità linguistiche, cui si vuol dar modo così di consolidarsi, il libro risponde con un appello alla Costituzione, che prevede l'istruzione obbligatoria per almeno 8 anni di scuola: "8 anni vuol dire 8 classi diverse. Non 4 classi ripetute due volte ognuna. Se no sarebbe un brutto gioco di parole indegno di un'Assemblea Costituente. Dunque oggi arrivare alla terza media non è un lusso. E' un minimo di cultura comune cui ha diritto ognuno. Chi non l'ha tutta non è Eguale".

La scuola democratica non deve bocciare, almeno al livello di scolarità obbligatoria. Nei grandi paesi progrediti questa è ormai la prassi. Non insisteremo sugli Stati Uniti, dove molti ritengono che lo standard sia troppo basso appunto perché non si boccia.

Prendiamo la Russia dove per ammissione generale (anzitutto dei critici dell’educazione americana) lo standard è molto elevato. Nella Repubblica russa i ripetenti a livello di scuola obbligatoria erano nel 1952-'53 il 14,5 per cento. Ciò suscitò proteste e indignazione, indusse le autorità scolastiche a un'azione concertata per cui nel 1963-'64 tale percentuale era ridotta al 4,3 (un decimo rispetto all'Italia!).

Controlli oggettivi dimostrarono che lo standard non era calato, ma piuttosto migliorato. Tuttavia i competenti non sono ancora soddisfatti, e progettano e mettono in atto altre misure, e già ottengono che certe regioni, come quella di Rostov, non registrino più affatto ripetenti, (naturalmente per i ritardati psichici, non più dell'1 per cento, ci sono scuole speciali).

Questi i dati forniti dal vice ministro dell'Educazione della Repubblica russa sulla rivista americana Soviet Education nel febbraio 1966. E quanto alle tanto disprezzate scuole americane, dove neppure si boccia, va detto che producono matematici migliori dei selezionatissimi ginnasi tedeschi: lo ha dimostrato una recente inchiesta Unesco.

Dunque questa Lettera a una professoressa non è lo sfogo di animi esacerbati, ma un serio e sensatissimo appello a tutta la società italiana, un appello che non deve restare inascoltato.

 

LA SCUOLA ITALIANA PRIMA E DOPO LA "LETTERA"

di Lucio Lombardo Radice

Rinascita, Roma, 15 luglio 1977, pagg. 45-46

La figura di un uomo che ha scritto poco e ha fatto scrivere

moltissimo di sé. Non è possibile "laicizzare" don Milani, prete.

L'esperienza di Barbiana

Ho sottocchio il volume La stampa e don Milani di Gianfranco Riccioni, pubblicato nel 1974 dalla Libreria editrice fiorentina, nella collana "I libri di Corea per la piena occupazione", diretta da Mario Gozzini e Alfredo Nesi. Scorro la bibliografia. Parte prima: "Scritti di don Lorenzo Milani"; due paginette -in tutto dieci titoli, compresi i tre articoli pubblicati tra il 1950 e il 1951 su Adesso, la rivista diretta da don Primo Mazzolari.

Parte seconda: "Don Milani e la stampa"; 120 pagine, 1114 titoli. I due elenchi, dopo tre anni, andrebbero l’uno e l'altro allungati. Di non molto quello degli scritti di don Milani, con l'aggiunta di qualche volumetto di lettere inedite; di moltissimo quello degli articoli, dei saggi, dei libri su don Milani.

Mi pare che il semplice rapporto aritmetico tra gli "scritti di" e gli "scritti su" misuri la eccezionalità dell'uomo. La sua scelta di vita, una e duplice, sacerdote e "povero", è scelta del messaggio vissuto contro quello scritto, del lavoro contro le "lettere". "Ci ho messo ventidue anni -scrisse don Lorenzo nel '65- per uscire dalla classe sociale che scrive e legge L'Espresso e Il Mondo. Non devo farmene ricatturare neanche un giorno solo. Devono snobbarmi, dire che sono ingenuo e demagogo, non onorarmi come uno di loro. Perché di loro non sono. Io da diciotto anni in qua non ho più letto un libro né un giornale se non ad alta voce con dei piccoli uditori".

Che cosa ha significato la vita di quest'uomo "eccessivo" (evviva gli uomini "eccessivi", senza i quali il mondo non si scuote e non avanza) per la Chiesa nella quale visse e morì, sempre indipendente e sempre disciplinato, per i "subalterni" in mezzo ai quali visse per venti anni e più, per la scuola dei ragazzi senza cultura ufficiale a casa, con i quali lavorò dalla mattina alla sera nelle parrocchie delle colline toscane? Perché rimane tanto importante (e per tanti, non per la ristretta cerchia degli intellettuali) dieci anni dopo la morte? Non voglio riaprire i due libri fondamentali della vita di Lorenzo Milani, non voglio consultare quello che è stato scritto su di lui. Voglio soltanto concentrarmi un momento, per comprendere qual è il segno che ha lasciato, cosa ha dato alla nostra coscienza, che cosa di noi associamo a lui senza la mediazione della rilettura e dello studio. Due cose, a me pare; due cose che sono venute fuori dal profondo del suo impegno, uno e duplice: un nuovo modo di intendere e di vivere la parrocchia (la comunità cristiana di base), un nuovo modo di intendere e di vivere la scuola.

Non è possibile "laicizzare" don Lorenzo Milani, prete. La sua battaglia laica -istruzione, libertà, promozione dei lavoratori- aveva come scopo la Parola, la Salvezza. "L'uomo non vive di solo pane e casa, ma di scuola e di pensiero e di libertà interiore perché da queste si passa direttamente alla fede e alla vita eterna, mentre dal pane e dalla casa si può tranquillamente passare alla televisione e al cine". Così don Lorenzo in una lettera, finora inedita, a Gian Paolo Meucci, su La Rocca, 1° luglio '77.

Tutto, insomma, in funzione della fede, del Vangelo: promozione umana come concreta evangelizzazione, potremmo dire oggi con un linguaggio che dieci anni fa non si usava ancora. Occorre perciò partire da Esperienze pastorali (1957) per capire la Lettera (1967). Padre Stanislao Ricci, frate dei Servi di Maria, dichiara alla Rocca: "C'era in quel libro tanta fede, tanto amore del prossimo e tanta angoscia per il fatto che la Chiesa, in un momento di portata storica e di coraggiose decisioni, sembrava preoccupata solo di allontanare la minaccia del comunismo". Don Milani, in quel suo libro, narra le esperienze pastorali da lui fatte a San Donato (frazione di San Giovanni di Calenzano, vicino a Firenze), tra il 1947 e il 1954. Propone una parrocchia fondata sopra una scuola popolare per giovani operai e contadini, rifiutando e condannando la parrocchia ricreatorio, che "attira" i ragazzi con il calcio balilla o con quello vero. L'Osservatore romano, allora organo della Chiesa di Pio XII, attacca duramente: "Don Milani non ha creduto far di meglio che condividere il più rigido ed esasperato classismo, la ribellione della società nella sua attuale struttura e organizzazione" (20 dicembre 1958). Subito dopo, per ingiunzione del Sant'Uffizio, don Lorenzo accetta disciplinatamente di ritirare il libro "inopportuno" dal commercio. Don Milani, perciò, è, innanzitutto, uno dei sacerdoti cattolici che anticipano il Concilio, e che si riconosceranno pienamente in Papa Giovanni, pastore di anime, immagine di una chiesa "povera". Si tratta di una tendenza nel clero cattolico di allora, e anche di oggi, che è cosa ben diversa dal "dissenso": la tendenza che fa capo storicamente a don Primo Mazzolari, e che in Toscana era rappresentata prima del Concilio da don Facibeni e don Bensi, maestri, anzi "padri spirituali" del più giovane don Milani.

La scuola di Barbiana è un proseguimento, uno sviluppo, di quella di San Giovanni di Calenzano. L'ispirazione ideale, e lo scopo ultimo, rimangono sempre di carattere religioso, cristiano: la convinzione profonda è che solo la cultura apre la strada alla piena comprensione della Parola. Senza dubbio, però, don Lorenzo scava a Barbiana più in profondità, va assai a fondo nella analisi del carattere di classe della cultura scolastica dominante. Ed è qui la sua più grande scoperta, quella scoperta che ci permette di dividere la storia della scuola italiana in due periodi, prima della Lettera e dopo la Lettera. (Riprendo il titolo che Alberto Alberti mise, a caldo, dieci anni fa, al suo articolo-saggio su Riforma della scuola: "Dopo la Lettera"). Prima della Lettera, il movimento operaio, socialista e comunista, aveva ben compreso e denunciato, il carattere di privilegio che avevano scuola e cultura, una scuola e una cultura che emarginavano le grandi masse lavoratrici. Don Lorenzo ci ha aiutato a compiere un grande passo avanti: ci ha aiutato a comprendere che il privilegio di classe è già dentro la cultura scolastica tradizionale, e non consiste solo nella esclusione, o nella selezione precoce, dagli studi per motivi di "censo". Questo io trovo in me del messaggio di don Milani, a libri chiusi. Poco? forse. Ma un "poco" talmente importante dal punto di vista qualitativo, da bruciare tutte le unilateralità, che furono tante, di un uomo aspro ed "eccessivo", di uno di quei rari e preziosi uomini che seminano scandalo e scuotono le più certe fondamenta dell'ordine e del sapere costituito.

 

LA SCUOLA DI BARBIANA

di Pio Baldelli

Il Giornale dei genitori, Milano, luglio-agosto-settembre 1967, n° 7-8-9, pag. 15

Don Lorenzo Milani, creatore della scuola di Barbiana (Mugello), recentemente e immaturamente scomparso, fu uno degli educatori più originali e più validi che abbiamo avuto in Italia in questi ultimi anni: non perché abbia elaborato una teoria pedagogica, ma per l’integro esempio di libertà e d’anticonformismo che ha saputo darci con la sua vita e con la sua opera.

Il miglior modo per ricordarlo ci sembra quindi il pubblicare alcuni brani del libro "Lettera a una professoressa" (Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, L. 700) -di cui fu ispiratore e promotore-, scritto da otto ragazzi usciti alla sua scuola, con la collaborazione dei compagni: una ben documentata e sconvolgente denuncia della mentalità (e della pratica) classista che domina oggi ancora gran parte della nostra scuola. Premettiamo alla scelta di brani una presentazione scritta per il nostro Giornale dal professore e scrittore Pio Baldelli che del Milani fu grande estimatore e amico.

E’ questo un libro la cui lettura va consigliata, indiscriminatamente: ad adulti e giovani, a genitori e figli, a insegnanti e politici. Si tratta di un documento al tempo stesso sconvolgente ed esemplare: un processo severo, preciso alle istituzioni scolastiche e al lavoro di numerosi insegnanti. Le magagne della scuola, l’inettitudine didattica e la miopia morale degli educatori sono portati alla luce dalla base (i protagonisti dell’esperienza scolastica, gli scolari) e con prove precise. Le parole di questi popolani sono dure, ma senza petulanza, e lasciano il segno come pietre. Da dove nasce la denuncia? Il lettore non deve pensare che si tratti di conclusioni magari intelligenti ma abborracciate in fretta, e interessanti, se mai, qualche settore limitato della scuola. La televisione italiana ha operato, di recente, proprio questo processo d’impoverimento del valore di un’esperienza: ha intervistato i giovani della scuola di don Milani e ha adoperato, per un invito all’indulgenza, frammenti dei loro ragionamenti sul tema delle bocciature troppo severe: infatti nella scuola di Barbiana non ci sono le categorie dei bocciati e dei promossi. Su quale terreno, dunque, cresce l’esperienza di questa scuola che ora accusa le istituzioni scolastiche nazionali?

Al punto di partenza sta l’impazienza "apostolica" (o rivoluzionaria) di don Milani, il loro maestro. Togliere la pace alla gente, diceva, per svincolarla dall’indifferenza: dei fatti maturano nell’ombra, poiché mani non sorvegliate da nessun controllo tessono la tela della vita collettiva e la massa ignora. E perciò è necessario che spariscano gl’indifferenti, gli scettici, gli estranei, quelli che usufruiscono del poco bene che l’attività di pochi procura, e non vogliono prendersi la responsabilità del molto male che la loro assenza dalla lotta lascia preparare e succedere. L’impresa di don Milani appare ideata e praticata non sul popolo ma "dalla parte del popolo", e senza mai derogare. Senza fatui intenerimenti e stantii paternalismi, muove dal punto di partenza della vita popolare dove i protagonisti si presentano carichi di difetti e anche di confusioni: e tuttavia "il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri". Per i detentori del potere intellettuale spesso il popolo non appare capace di distinguere né di ragionare. "Ecco ora qualcuno che ha già cominciato a dire che esagero, ma non s’è guardato allo specchio (scrive in Esperienze pastorali, 1958). Forse che quando predica o conversa coi suoi parrocchiani il prete non semplifica i discorsi all’eccesso come si fa quando si tratta coi bambini? Forse che parla loro come a suoi pari? Ci s’è abituato ormai, la cosa è così profondamente penetrata nella sua anima che non ne inorridisce neanche più: parla con loro un linguaggio inferiore". Non conosco, nel nostro paese, un classismo più denso di tensione morale di quello contenuto nell’esperienza quotidiana di Milani e dei suoi scolari. Al dominio di classe vanno contrapposte, secondo questo sacerdote, posizioni nettissime, altrettanto radicali. Non si può ammettere che esista ancora una casta inferiore di contadini e tanto meno che non se ne possa uscire. "La nostra proposta più moderata sarebbe una legge così redatta: Articolo 1. La terra appartiene a chi ha il coraggio di coltivarla. Articolo 2. Le case coloniche appartengono a chi ha il coraggio di starci. Articolo 3. Il bestiame appartiene a chi ha il coraggio di ripulirgli tutti i giorni la stalla. Articolo 4. I boschi appartengono a chi ha il coraggio di vivere in montagna".

Il maestro ha insegnato ai suoi giovani a muoversi in uno spazio concreto, moderno. Essi prendono possesso d’un luogo ridotto (la parrocchia), gramo, limitato: ma vivono dentro di esso con impeto, e massima apertura d’affetto e di ragione alle singole persone, una per una: acquistano contorni netti anche gli oggetti e gli ambienti angusti dove l’uomo invecchia. Da questo spazio circoscritto, ma rimanendovi ancoràti tanto che neanche per un istante lasciano la presa, essi allargano la passione, l’ansia, i ragionamenti per cerchi concentrici fino a temi conclusivi, di ordine generale, legando la vita del paese, sasso per sasso, casa per casa, con la vita del mondo.

Don Milani considera i suoi allievi come collaboratori: "Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere". Don Milani ha posto al centro della sua esperienza la scuola popolare e ha smascherato duramente la ricreazione reazionaria predisposta dall’industria culturale per svirilizzare i proletari. Ha smesso presto, nel suo ministero, di far la corte ai giovani che non venivano in parrocchia e di buttar via il tempo dietro il pallone o i tesserini e i distintivi, perché s’era fisso in mente che un maestro che insegna per ore ai giovani cose stupide e inutili pecca gravemente. Le ricreazioni, giuste perché istruttive (recite e pellicole scelte, commentate e discusse, gite istruttive, sport basati su funzioni reali e purificati dall’agonismo, dall’interesse, dal giuoco sulla vita, dalla spesa eccessiva) le cataloga senz’altro sotto il capitolo scuola. Ma il perno della scuola sta in direzione diversa. L’operaio d’oggi con il suo diploma di quinta elementare è in stato di maggior minorazione sociale che non il bracciante analfabeta del 1841. La lettura di un libro è per i ragazzi di campagna (dopo cinque classi e sei o sette anni di scuola) praticamente impossibile. "Prima di aprir bocca davanti a un uditorio così inerme occorre un lungo scrupoloso esame di coscienza, un rispetto delicato, sofferente, umiliato dall’immediato strapotere. Chi mai ha parlato al nostro popolo in questo stato d’animo? Forse i propagandisti politici? Forse i fattori? i commercianti? i sacerdoti? Ne consegue che un parroco che facesse dell’istruzione dei poveri la sua principale preoccupazione e attività non farebbe nulla di estraneo alla sua specifica missione e andrebbe assai più distante del prete che ha la sua principale attività nel ricreatorio". Non interessa tanto di colmare l’abisso di ignoranza, quanto l’abisso di differenza. Ecco quindi la necessità, per il sacerdote e i suoi allievi, di ordinare queste scuole popolari con criteri rigidamente classisti. Fattore determinante in questa cultura generale diventa la padronanza della lingua e del lessico. Si può, difatti, presumere che un operaio adulto non abbia buttato via la sua vita, abbia tenuto gli occhi aperti sul mondo e quindi sappia quello che vuole quanto l’avvocato o l’ingegnere suoi coetanei e forse meglio. Se lo troveremo in condizioni d’inferiorità rispetto a quei due non sarà per mancanza di idee e di cognizioni quanto per l’incapacità di esprimersi e d’intendere l’espressione del pensiero altrui. "Un’anziana nobildonna fiorentina, che venne a sapere che a San Donato i ragazzi avevano studiato a lungo l’Apologia di Socrate e che ne erano rimasti enormemente compresi, domandava: Ma come? Dei giovani contadini possono intendere l’Apologia? Quando lo raccontai ai ragazzi scoppiarono in una risata cordiale: Come? Una marchesa può intendere l’Apologia?". Nella scuola di don Milani capitavano spesso, in visita, ispettori e politici che poi non capivano. Ed era naturale: rappresentavano una società che ha fatto sempre della cultura un privilegio di casta e che solo ora va allargando le proprie anguste prospettive fino a proporre di farne in futuro un privilegio da estendere anche a elementi di classi inferiori ma personalmente dotati. Aumentare cioè il numero degli effettivi della casta privilegiata conservandone però il carattere di casta e i privilegi.

Non nell’abbondanza finanziaria stanno, dunque, il segreto dell’efficienza di questa scuola popolare e la forza severa della sua denuncia. "Spesso gli amici -scrisse don Milani- mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola. Bisogna aver le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici. Non bisogna essere interclassisti, ma schierati. Bisogna ardere dall’ansia di elevare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari a quello dell’attuale classe dirigente ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto. E allora vedrete che gli operai e i giovani verranno, che lasceranno in asso tutte le ricreazioni del mondo (...). Non vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale".

Il libro precedente di don Milani e dei suoi allievi, Esperienze pastorali, non attrasse l’attenzione degli intellettuali (scrittori, sociologi, educatori, ecc.) sempre all’erta per scandagliare, premiare e reclamizzare ogni traccia di superficiali novità e di sensazioni epidermiche, e tanto distratti di fronte a questo genere di testimonianze. Ma in fondo, purtroppo, anche questa noncuranza si spiega: libri come Esperienze pastorali e Lettera a una professoressa congedano le dispute delle variopinte accademie che imperversano, e spingono, distante dagli echi mondani, a qualcosa che sia al centro del momento storico che viviamo, al di sopra delle stupidaggini che vanno di moda.

 

I RAGAZZI DI BARBIANA

di Manlio Cancogni

La Fiera Letteraria, Milano, 24 agosto 1967, pagg. 3-4

C’è un libro che pur non portando il nome di un autore famoso in questi giorni fa parlare molto di sé. E’ arrivato sul mio tavolo. E’ un piccolo libro, di centosessanta pagine rade, che costa solo settecento lire. L’ho cominciato a leggere per dovere d’ufficio. Dopo le prime frasi non ho più potuto staccarmene, finché l’ho finito. Non esito a dire che è il libro più straordinario che sia uscito in Italia negli ultimi anni. E’ la Lettera a una professoressa scritta da otto alunni della scuola di Barbiana, la scuola di don Milani.

Non ho mai conosciuto don Milani. Quando uscirono le sue Esperienze pastorali non ero in Italia, rimasi estraneo all’interesse che quel libro suscitò nel mondo culturale e politico italiano, cattolico e laico. In seguito vennero la Lettera ai giudici, quella sul diritto alla disubbidienza; la polemica intorno alla figura di questo singolare sacerdote s’accese.

Tutto ciò avrebbe dovuto attrarmi; invece mi respingeva. "Perché non t’occupi di don Milani?", mi chiedevano alcuni colleghi. "Perché non vai a trovarlo?". Non ne sentivo la necessità, tanto meno l’obbligo. Fra l’altro non avevo voglia di litigare com’era inevitabile, così si diceva, se uno non gli andava a genio. Mi sarei trovato in imbarazzo. Come avrei reagito ai suoi attacchi?

Avevo già avuto a che fare con sacerdoti tenuti in sospetto per le loro opinioni politiche e sociali, al punto d’essere quasi considerati eretici; avevo conosciuto don Zeno; ero stato in visita a Nomadelfia; e in Francia dai preti operai, dall’Abbé Pierre. Sempre per motivi professionali; e sempre sentendomi nello stato d’animo spiacevole di chi teme di restare vittima di una suggestione, di qualcosa d’irrazionale, e se ne difende. Personalmente il problema non mi riguardava. Pensavo: se ci sono degli uomini che credono di placare la loro inquietudine con un’attività sociale e politica anziché con i mezzi tradizionali che offre loro la fede, facciano pure.

E ora ecco questa Lettera a una professoressa. Che stile affascinante. Ecco uno che scrive senza sotterfugi o trucchi, col tono della verità. Dopo tanti anni che si parla di riforma della scuola, e di lingua ecco uno che ne scrive con chiarezza e con passione.

Leggendo non dubitavo che il libro fosse opera individuale di Don Milani e non collettiva. Per istinto credo poco al lavoro di squadra, a meno che non si tratti di una catena di montaggio o di un’esperienza di laboratorio. Così pensavo che attribuirla a un gruppo fosse una finzione, una trovata. Ora penso d’avere avuto torto. Probabilmente la Lettera a una professoressa è stata scritta veramente dagli otto ragazzi della scuola di Barbiana.

CONDANNATO A ESSERE ANALFABETA

La cosa d’altra parte non ha importanza. Don Milani che avrebbe potuto spiegarci francamente come sono andate le cose non c’è più. E’ morto circa due mesi fa, a Firenze, in casa della madre. Era malato da molti anni. Aveva sopportato per anni malattie che normalmente distruggono in poco tempo una persona robusta. Leggerete più avanti una lettera da lui scritta poco prima di morire e che dovrebbe togliere ogni dubbio. Ma torniamo al libro. Si tratta di una requisitoria. Sotto accusa è una professoressa, cioè la scuola italiana, tutto un sistema didattico, e non ultima, la lingua che si usa ufficialmente, quella dei libri.

Si comincia da un particolare a prima vista trascurabile: la bocciatura. Prima di leggere questa Lettera pensavo che un maestro e un professore avessero tutti i diritti di bocciare chi non sa, e mi pareva che certi inviti alla clemenza fossero un segno di demagogia. Ora penso che bocciare, alla Scuola d’obbligo, sia un atto grave da non compiere così alla leggera.

La legge ha portato a otto anni la Scuola d’obbligo: è una legge democratica, di un Paese che mira all’uguaglianza politica e sociale. Ma in pratica quanti sono quelli che fanno veramente gli otto anni: otto anni s’intende che siano il corrispettivo di otto classi e non di quattro classi ripetute due volte?

Dice la Lettera: "La Scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde". La Scuola d’obbligo ne perde per strada 462.000 l’anno. Questa cifra è tratta da statistiche ufficiali. Vuol dire che la Scuola d’obbligo manca al solo scopo che è appunto quello di portare tutti, senza distinzione di classe, a un certo livello d’istruzione, in maniera che siano veramente uguali. Chi boccia, generalmente, dopo avere ripetuto una o due volte abbandona. E’ condannato a essere analfabeta anche se non apparirà mai come tale sulle statistiche.

Ora il guaio è che la bocciatura non colpisce tutti ugualmente. Colpisce i figli dei poveri e risparmia i figli dei ricchi, i Pierini come dice la Lettera. I Pierini cominciano che sono già avanti, e continuano a imparare anche quando sono a casa; gli altri, a casa, disimparano. E sono partiti così male! Se a scuola Pierino va male i genitori lo mandano a ripetizione; gli altri vanno a dar una mano, nel campo, al padre contadino.

"Una maestra dice stizzita: se un compito è da quattro io gli dò quattro" Si vanta di non guardare in faccia a nessuno. E questo è il suo errore. "Perché" dice la Lettera, "non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali fra i disuguali".

I RAGAZZI PERSI PER STRADA

Una professoressa di seconda media dice soddisfatta: "Quando li ho presi in prima erano dei veri analfabeti. Ora invece mi fanno dei compiti corretti. Di chi parla? Dove sono ragazzi che prese in prima media ? Sono rimasti solo quelli che scrivevano corretto anche allora e forse anche in terza elementare. Quelli che l’hanno imparato dalla famiglia. Gli analfabeti che aveva in prima media sono ho ancora analfabeti. Se li è solo levati davanti agli occhi". Anche queste sono parole della Lettera.

In media su trenta ragazzi che una maestra riceve in prima elementare, ne arrivano in fondo alla Scuola d’obbligo solo 10. Gli altri si sono persi per strada. Sono andati al lavoro: senza proteste, in genere. E’ molto facile, nel popolo, adattarsi all’idea di non essere tagliati per lo studio se il maestro e il professore te lo dicono gentilmente. Stando così le cose, è ovvio che non si può parlare di uguaglianza fra i cittadini come indica la Costituzione. Arrivare alla terza media è un minimo di cultura a cui ha diritto ognuno. Chi non la possiede non è uguale.

Tutti i ragazzi, salvo casi patologici, sono in grado di portare avanti gli studi prescritti dalla Scuola d’obbligo. Se non lo fanno la colpa non è loro, è degli insegnanti, del sistema d’insegnamento. Se ogni maestro o professore avesse l’obbligo di consegnare "formati" tutti i ragazzi che gli vengono affidati, così come il caporeparto di una fabbrica ha l’obbligo dì consegnare tutti i pezzi, le cose cambierebbero.

Per questo ci vuole un impegno che gli insegnanti non hanno. Ci vorrebbe che ogni insegnante si occupasse soprattutto di quelli che stentano a seguire. Chi lo fa? E’ molto più facile bocciare. Eppure alla luce delle moderne teorie psicologiche e pedagogiche si sa che spesso i ragazzi che alla prima sembrano stupidi o poco dotati sono soltanto dei timidi. Senza contare quelli che non capiscono perché non conoscono il significato delle parole scritte sui libri che l’insegnante ripete senza spiegare.

La seconda riforma riguarda il tempo. Gli insegnanti, quanto a orari, sono dei privilegiati. In media non lavorano più di cinquecento ore l’anno. Non è una gran cifra. Potrebbero dedicarne quasi altrettante al doposcuola. La legge lo prescrive, proprio per andare incontro a chi ha bisogno di un supplemento di istruzione, ma nessuno lo pratica. Professori, presidi, provveditori sono tutti d’accordo nel ritenerlo inutile.

E’ preferibile impiegare l’abbondante tempo libero che lascia la scuola a dar lezioni private. Questo è un reale abuso. Specie pensando che a questa seconda scuola i professori dedicano più impegno che alla prima. "Ma, osserva la Lettera, se un impiegatuccio comunale a casa sua, a caro prezzo facesse certificati presto e bene e allo sportello li facesse lentamente e inservibili andrebbe dentro". E qui penso che la Lettera pecchi d’ottimismo.

Ma per dedicare tutto il proprio tempo alla scuola bisognerebbe che essa fosse diversa da quella che è, che se ne avvertisse l’utilità, che si sentisse la sua funzione sociale e politica. Allora non stancherebbe; allora non provocherebbe le lamentele degli insegnanti.

E invece gli insegnanti sono i primi a sapere che si tratta di un’istituzione assurda nella sua apparente logicità. Tanto è vero che parlano continuamente della necessità di riformarla.

La scuola, con i suoi programmi, orari, scrutini, esami, libri di testo, metodi d’insegnamento, è un’istituzione fine a se stessa. Lo sanno tutti. La Lettera lo spiega con alcuni esempi che fanno riflettere. Dice ad esempio la Lettera a proposito dell’insegnamento del Francese: "Passò con nove un ragazzetto che in Francia non saprebbe chiedere nemmeno del gabinetto. Sapeva solo chiedere gufi, ciottoli e ventagli sia al plurale che al singolare. Avrà saputo in tutto duecento vocaboli e scelti col metro di essere eccezioni, di non essere frequenti".

Che senso ha insegnare una lingua partendo dalle cose più difficili, dalle regole grammaticali? Dice la Lettera: "La grammatica appare quasi solo scrivendo. Per leggere e parlare si può fare senza. Piano piano s’orecchia. Più tardi chi ci tiene può studiarla. Del resto con la nostra lingua si fa così. Si riceve la prima lezione di grammatica dopo otto anni che si parla. Dopo tre che si legge e che si scrive".

Dice la Lettera: "Il problema di geometria faceva pensare a una scultura della Biennale: "Un solido è formato da una semisfera sovrapposta a un cilindro la cui superficie è tre settimi di quella...". Non esiste uno strumento che misuri le superfici. Dunque nella vita non può accadere di conoscere le superfici e non le dimensioni. Un problema così può nascere solo nella mente di un malato".

PROPOSTA DI PORTATA RIVOLUZIONARIA

Dove la riforma proposta dai ragazzi di Barbiana assume una portata addirittura rivoluzionaria è a proposito della lingua. Il primo problema è quello; e contrariamente a ciò che dicono i ragazzi di don Milani va risolto non solo per i poveri ma per tutti. L’Italia sarà sempre il Paese che è, vecchio, contraddittorio, confuso, inefficiente, assurdo, se non impareremo tutti a parlare, cioè a esprimerci in una maniera chiara, semplice, aderente alla realtà.

Nell’Italia ufficiale, della scuola, delle Università, dei Parlamenti, degli uffici, dei tribunali, dei congressi, non si parla: si enunciano parole, frasi. Si ascolti il discorso di un uomo politico. Quanti sono in grado di capirlo? Frasi interminabili, allusive; formule; termini astratti: solo quelli che fan parte del gioco intendono, o fanno finta di intendere. I politici si sono mai posti questo problema? No. Ed è naturale. Nessuno si alza mai a dire: "Un momento, ripeta, non ho capito nulla".

E poi i professori, i maestri, gli scrittori. La nostra lingua è un patrimonio di cui solo pochi possono disporre agevolmente. E quelli se ne compiacciono, ci giocano. Gli altri ne hanno paura, l’ascoltano interdetti. Essa sembra fatta apposta per allontanare l’uomo comune dalla conoscenza. A destra, a sinistra, è la stessa storia: pochi che parlano fra loro e gli altri che ascoltano sicché, con la Lettera si può giustamente concludere che in Italia non esistono partiti: solo il partito dei laureati, di quelli cioè che sanno utilizzare (a loro vantaggio) le parole.

 

L’INVITO A NON BOCCIARE

di Alberto Sensini

Corriere della Sera, Milano, venerdì 1° settembre 1967

"Perché il sogno dell'uguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme. Primo: non bocciare. Secondo: a quelli che sembrano cretini dargli la scuola a pieno. Terzo: agli svogliati dargli uno scopo". La proposta è rivoluzionaria. Sintetizza bene nella premessa polemica e nel suggerimento massimalistico (il primo) unito a consigli giudiziosi (il secondo e il terzo) il tono di quel furioso pamphlet che è la "Lettera a una professoressa" (Libreria editrice fiorentina, lire settecento): un lungo sfogo dei ragazzi di don Milani e nello stesso tempo una specie di testamento di questo prete deceduto poche settimane fa, dopo una breve esistenza divorata dall'amore per il prossimo e dall’opposizione integrale alla nostra società civile.

La "Lettera" alterna con ingenuità sprazzi di verità sacrosante a forzature polemiche, annotazioni di grande buon senso a tiritere in difesa di una ipotetica e generica civiltà contadina da salvare, critiche esatte alla scuola dell'obbligo a pagine di irritante massimalismo populista.

Messa da parte la pesante cornice di risentimenti e di classismo, vale la pena osservare il quadro se non altro come testimonianza autentica di uno stato di disagio che pervade chi della scuola dell'obbligo dovrebbe essere il maggior beneficiario. Sotto questa angolazione il libro è riassunto bene dalla frase che si è citata all'inizio: una premessa sbagliata -il perentorio "non bocciare"- seguita da due consigli sacrosanti.

La premessa sbagliata non merita molte parole di confutazione. La scuola dell'obbligo non implica l'obbligo di promuovere tutti e comunque, anche se i criteri di selezione dovevano lasciare maggiore spazio ai principii di formazione [e] di orientamento che sono tipici della media unica. Ed è vero, come hanno documentato con pazienza i ragazzi di Vicchio, che la scuola italiana perde ancora milioni di adolescenti per la strada; spreca ogni anno un patrimonio di talenti, continua ad essere una piramide con un vertice troppo ristretto rispetto all'ampiezza della base.

Questo è il vero nocciolo del problema. Tra il "non bocciare" preteso dagli autodidatti di don Milani -e subito rilanciato dai rotocalchi sulla scia dei risentimenti per gli scrutini di luglio- e l'abitudine di bocciare tanto cara a certi insegnanti, la soluzione equa non manca. Si tratta di cercare di recuperare quanti più ragazzi è possibile per allargare di fatto la fascia degli alfabeti, è necessario di far sì che la media unica dia una formazione di base autosufficiente restando, nello stesso tempo, porta d’accesso alle scuole di grado più alto. Ma con i programmi di oggi, con i metodi in uso, con lo scarso entusiasmo di troppi professori, con l'indifferenza di troppe famiglie questo fine primario della riforma non sarà mai raggiunto: ed è sintomatico che la "Lettera a una professoressa" insista proprio sulla necessità di programmi più vivi, di insegnanti più appassionati, di famiglie più partecipi.

Era questo il discorso da portare avanti contemporaneamente alle prime esperienze della nuova scuola, meglio ancora prima di impostare la media dell'obbligo. Ma da noi la scuola dagli undici ai quattordici anni ha in sé un grosso peccato di origine: la falsa polemica tra latino e applicazioni tecniche, la contrapposizione meccanica tra i fautori delle didattiche attive e i sostenitori del metodo tradizionale, la divisione manichea tra denigratori e apologeti di una scuola molto più vecchia di quanto non si voglia far credere.

In questo senso, certe pagine dei ragazzi di don Milani -la preminenza da dare all'uso di un italiano corretto, la genericità dei programmi, il malvezzo delle ripetizioni- offrono per la prima volta la possibilità di comprendere che cosa vogliono i giovani dalla loro scuola e perché ne sono tanto insoddisfatti. E tutto questo conta molto di più dell'invito a non bocciare.

Sugli altri due consigli della "riforma" proposta dai ragazzi della parrocchia di Barbiana non c'è molto da dire. "Scuola a pieno tempo": è una esigenza che tutti i paesi civili hanno già tradotto in realtà e che da noi resta purtroppo utopia per mille ragioni: questioni di bilancio, resistenze di troppi professori e professoresse, diffidenze di molte famiglie proprio nel mondo cattolico. E poi: "Agli indifferenti dargli uno scopo": la massima si commenta da sé e i buoni insegnanti -qualunque sia il metodo di cui si dicono seguaci- l’adottano da sempre.

Un bilancio di questo libro? E' impossibile. La "Lettera" è commovente e irritante insieme. Commuove la forza morale di questi ragazzi. Irrita il loro massimalismo saccente. Suona autentico il risentimento contro un sistema di istruzione che non crea uguali basi di partenza. Sembrano false le invettive da barricata. Appare giusta la condanna della miopia di una politica scolastica di cui è responsabile tutta la classe dirigente del paese. Ingenerosa è la condanna in blocco dei professori. Il libro, insomma, vale più per i problemi che solleva che non per il modo in cui li imposta suggerendone la soluzione. Da una diecina di ragazzi autodidatti non ci si poteva attendere di più: ma quanti dei loro coetanei cresciuti nella scuola di Stato avrebbero saputo fare altrettanto?

 

L’ANTISCUOLA DI BARBIANA

2. I ragazzi e i critici di don Milani

di Giorgio Pecorini

Comunità, Milano, n° 146-147, settembre-ottobre 1967, pagg. 25-30

Quarantacinquemila copie vendute, centinaia di recensioni, decine di dibattiti, un premio letterario, tre trasmissioni televisive, due progetti di film: questo, in cinque mesi, il bilancio di Lettera a una professoressa, il libriccino scritto dai ragazzi della scuola di Barbiana e stampato dalla L.E.F. di Firenze. A dispetto dell'industria culturale: basti dire che la sera della consegna del Premio Prato, annunziata ventiquattr'ore prima, l'editore del best-seller, oltre a non farsi vedere, non ha neppure mandato una copia del libro da mettere in mostra. Per disattenzione, non per polemica: non ci aveva proprio pensato, non conosceva le usanze.

"Il libro più straordinario che sia uscito in Italia negli ultimi anni", l'ha definito la "Fiera letteraria". I giudici del Premio Prato hanno tenuto a essere più precisi ancora: "Un libro sveglia, una provocazione, uno scandalo di quelli che è opportuno che accadano", hanno scritto nella motivazione. E hanno continuato: "Un libro seme. Un libro fertilizzante. Quello me ci vuole perché la famiglia e la scuola italiane si scuotano dalla loro pigrizia. Un libro civile. E intimamente religioso, perché è un atto di fede nei valori che liberano lo spirito umano. Un libro che difende i materialmente poveri e vuole offendere i poveri di spirito, i "custodi del lucignolo spento". Non c'è quasi frase di questo libro che non fermi a meditare. Il nostro paese, la nostra cultura hanno bisogno di libri come questi. Dal tempo della "Voce", la gloriosa rivista fiorentina del principio del secolo, non ne uscivano. Ma questo ha un suono ancor più perentorio, nato com'è da una esperienza e da una meditazione ritravagliate".

Il nostro paese, la nostra cultura che cosa hanno saputo rispondere sinora alle accuse rivolte loro dalla Lettera? La scuola, maggiore imputata, è riuscita in qualche modo a difendersi? E la famiglia, cioè i padri e le madri di tutti i ragazzi poveri buttati fuori ogni anno (462 mila l'anno perduti, un milione e 31 mila l'anno bocciati, nelle classi dell'obbligo) dalla scuola italiana, sembrano voler accogliere quell'invito a organizzarsi che i ragazzi di Barbiana gli hanno fatto come l'estrema speranza di salvezza?: "nel mezzogiorno, in montagna, nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano d'esser fatti eguali. Timidi come me, cretini come Sandro, svogliati come Gianni. Il meglio dell'umanità".

Un sommario bilancio qualitativo si può ormai tirarlo, a cinque mesi dall'uscita del libro. Chiedendo preventivamente scusa per le sempre possibili ma mai premeditate dimenticanze.

A differenza di quanto era accaduto due anni prima con le altre Lettere spedite da Barbiana, quella ai cappellani militari della Toscana (che avevano dato di vigliacchi e di anticristiani agli obiettori di coscienza) e quella ai giudici (chiamati a stabilire se le argomentazioni usate da don Lorenzo Milani per confutare la duplice accusa costituissero vilipendio della patria e dell'esercito), i giornali italiani furono lenti, estremamente lenti a cogliere la provocazione. Le ragioni della lentezza sono presumibilmente molteplici. La prima forse è stata l'ermeticità del volume: non un risvolto, non una fascetta, non un comunicato o un sunto di accompagnamento e di chiarimento. Un piccolo editore specializzato in opere di teologia, di ascetica e di mistica; un autore anonimo e collettivo. "Scuola di Barbiana", chissà cos'è e dov’è, quel nome non lo si trova neppure sull'annuario dei comuni e delle frazioni, anche chi sapeva qualcosa di don Milani difficilmente lo ricordava. Ci vuol altro, per fermare l'occhio e l'attenzione, con tutti i libri che arrivano a un giornale.

La seconda ragione è certamente più sottile. In quasi ogni giornale grosso o importante, un redattore o un collaboratore amico di don Milani, o amico di un suo amico, era stato avvertito e pregato di darsi da fare perché il piccolo libro non finisse in un cestino. Ma i giornalisti amici di don Milani o amici dei suoi amici son di rado autorevoli nei loro giornali: per quanto si dessero da fare, il libro, pur salvato dal cestino, non entrava mai in pagina. Un po' perché a raccomandarlo era il redattore o il collaboratore di cui si è detto; un po' perché i direttori e i recensori che s'erano lasciati persuadere a sfogliarlo s'erano spaventati. Spaventati per l'aggressività e la chiarezza del linguaggio, per la coerenza del discorso, per il radicalismo delle conclusioni.

Una terza ragione è stata, qualche volta, il fastidio che don Lorenzo Milani sapeva suscitare, in chi lo leggeva come in chi lo avvicinava. Fastidio d'essere aggrediti, accusati e contraddetti ma soprattutto fastidio d'essere scossi dalla propria beata egoistica indifferenza, d'essere costretti a prendere atto dei problemi, a schierarsi, a sentirsi impegnati a risolverli o, peggio, a sentirsi colpevoli per aver rifiutato l'impegno.

Risultato: nonostante la mancanza assoluta di propaganda e con tutta la fatica anzi che bisognava fare per procurarsi le copie, distribuite col contagocce alle librerie, la prima tiratura della Lettera, cinquemila esemplari, è andata esaurita da sola in poche settimane, sulla spinta degli entusiasmi e delle indignazioni suscitati fra gli insegnanti e gli studenti.

I primi articoli sono comparsi così, più sulla scia di quelle contrapposte reazioni che sul credito dei poco autorevoli raccomandanti. Poi, il 26 giugno, don Lorenzo Milani è morto: Lettera a una professoressa è diventato a questo punto un fatto di cronaca che non si poteva più decentemente ignorare. Ma si poteva, in compenso, restare attaccati ai fatti esterni, schivare l'esame e il giudizio delle idee, spulciare aneddoti e cifre insistendo sulle cose che persuadevano o convenivano maggiormente, scivolando sulle altre.

Organi di partito e testate indipendenti; cattolici, agnostici e laicisti; sinistra, centro, centro-sinistra e centro-destra: ogni parte ha tirato l'acqua al proprio mulino con la stessa consumata tecnica discriminatoria. (Solo le destre estreme han perso misura e prudenza, attribuendo il libro a don Milani anziché ai suoi ragazzi e liquidandolo con compatimento come l'ultima birbonata del "prete rosso", "sacerdote classista", "cappellano degli obiettori", e altre grossolane bestialità degne del loro gusto e della loro approssimazione).

Il gioco della prudenza non ha quasi mai ripagato la candela. L'aggressività della Lettera, fondata su una documentazione di prima mano ineccepibile e su una rara chiarezza insieme logica e morale, finisce col prevalere su tutte le prudenze. La semplicità e l'essenzialità del discorso impongono a chi ha assaggiato una citazione, per quanto breve e monca, di cercarsi il testo completo. Una volta messo mano al testo, è finita: anche chi si indigna non riesce a staccarsene, prima di scaraventare il libro dalla finestra (o andarlo a buttare sul banco del libraio per farsi ridare i soldi: è accaduto a Cremona) deve arrivare all'ultima riga.

Le furbizie dei recensori prudenti possono tuttavia aiutarci a capire, in generale, che cosa le varie parti, genericamente ideologiche e specificamente politiche, sono disposte a discutere, a conservare o a sovvertire dell'ordine scolastico costituito. E fin dove l'ordine scolastico sia riflesso e anzi parte costitutiva di un più ampio ordine sociale è tra le dimostrazioni più lucide del libro: "Spesso c'è venuto fatto di parlare del padrone che vi manovra. Di qualcuno che ha tagliato la scuola su misura vostra. Esiste? Sarà un gruppetto di uomini attorno a un tavolo con in mano le fila di tutto: banche, industrie, partiti, stampa, mode? Noi non lo sappiamo. Sentiamo che a dirlo il nostro scritto prende un che di romanzesco. A non lo dire bisogna far gli ingenui. E’ come dire che tante rotelle si sono messe insieme per caso. N'è venuto fuori un carro armato che fa la guerra da sé, senza manovratore". "Il meccanismo preciso non lo sa nessuno. Ma quando ogni legge sembra tagliata su misura perché giovi a Pierino e freghi noi non si può più credere nel caso".

L'atteggiamento del "Corriere della sera" è esemplare. Non una riga sul libro per quasi tre mesi, nonostante le due pagine settimanali, dei giovani e letteraria; nonostante il gran discutere di scuola, di promozioni e di bocciature nella stagione degli esami. Poi, il 21 luglio, un cenno rapidissimo nel sommario e nel testo di un articolo di Arturo Colombo sugli scrutini della maturità: "Complicato e forse ingiusto fare le parti uguali fra disuguali": ""Non c'è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali fra disuguali" ha scritto don Lorenzo Milani nella Lettera a una professoressa, un libro che ogni insegnante dovrebbe leggere, magari per dissentire da certi drastici giudizi del battagliero sacerdote scomparso poche settimane fa". Insegnante avvisato, mezzo salvato.

Passa un altro mese abbondante, e il 1° settembre Alberto Sensini pubblica un fondo sulla pagina dei giovani, "L'invito a non bocciare". Il libro viene restituito ai suoi legittimi autori, col vantaggio di poter dire sul muso di otto ragazzetti di montagna e in buona salute quello che non sarebbe elegante dire alla memoria di un prete morto dopo sette anni di malattia e uno di agonia ma soprattutto dopo vent'anni -la sua intera vira sacerdotale- di implacabile battaglia pastorale e civile crudelmente pagata di persona.

"La Lettera, scrive Sensini, "alterna con ingenuità sprazzi di verità sacrosante a forzature polemiche, annotazioni di grande buon senso a tiritere in difesa di una ipotetica e generica civiltà contadina da salvare, critiche esatte alla scuola dell'obbligo a pagine di irritante massimalismo populista". Come possano coesistere farneticamenti e assennati giudizi, resta oscuro. Balza chiaro invece a chi, prima dell'articolo, abbia letto il libro, la preoccupazione di consentire ad alcune riforme marginali: quelle indispensabili a rafforzare e quindi mantenere il sistema. Si fa finta allora di non aver visto (o forse non lo si è visto davvero: chissà) l'intimo legame degli argomenti, come una conclusione derivi strettamente dalla precedente, come nulla possa rimanere in piedi se si demolisce anche uno solo dei pilastri statistici, razionali e morali su cui l'intero edificio del libro è fondato.

"Suona autentico il risentimento contro un sistema di istruzione che non crea uguali basi di partenza", conclude Sensini. Ma aggiunge: "Sembrano false le invettive da barricata". Dovrebbero anche ringraziare, le vittime designate di quel sistema? Se è vero che "appare giusta la condanna della miopia di una politica scolastica di cui è responsabile tutta la classe dirigente del paese", perché sarebbe poi "ingenerosa la condanna in blocco dei professori"? A parte che nel libro non c'è questa condanna. Dice il libro, rivolgendosi ai professori: "Di certo non siete tutti come pensa il Borghi. Forse vi siete deformati proprio facendo scuola in una scuola così. Non avete preferito i signorini per malizia, è solo che li avete avuti troppo sotto gli occhi. Troppi di numero e troppo tempo. Alla fine vi siete affezionati a loro, alle loro famiglie, al loro mondo, al giornale che si legge in casa loro".

Il "Corriere della sera", appunto; e tutti gli altri "Corrieri" di cui pullula la provincia giornalistica italiana. E difficile che il giornale della classe dei Pierini riconosca e proclami e s'affanni a correggere gli errori della categoria, che sono privilegi faticosamente costruiti e conquistati col lavoro di un secolo, per non andar più indietro dell'unificazione d'Italia. Ma è altrettanto impossibile che chi paga, da un tempo eguale, il prezzo della "miopia scolastica" della classe dirigente, rinunzi a chiederne conto agli insegnanti, in cui essa si incarna.

Tale e quale con "l'Unità", ovviamente in senso inverso. Tutta la polemica classista, durissima, del libro, viene assunta e osannata ma contemporaneamente avulsa dalle sue conclusioni ultime, che sono una requisitoria feroce contro tutti i partiti, ferocissima contro i partiti di estrema sinistra. Dice dunque il libro:

"Le segreterie dei partiti a tutti i livelli sono saldamente in mano ai laureati. I partiti di massa non si differenziano dagli altri su questo punto. I partiti dei lavoratori non arricciano il naso davanti ai figli di papà. E i figli di papà non arricciano il naso davanti ai partiti dei lavoratori. Purché si tratti di posti direttivi. Anzi è fine essere "coi poveri". Cioè non proprio "coi poveri" volevo dire "a capo dei poveri".

"Le segreterie dei partiti preparano le liste dei candidati per le elezioni. Le ornano in fondo di qualche lavoratore tanto per salvar la faccia. Poi provvedono che le preferenze vadano ai laureati: "lasciate fare a chi sa. Un operaio alla Camera si troverebbe sperso. E poi il dottore è dei nostri". In conclusione vanno a far leggi nuove quelli cui vanno bene le leggi vecchie. Gli unici che non son mai vissuti dentro alle cose da cambiare. Gli unici che non son competenti di politica. Alle Camere i laureati sono il 77%. Dovrebbero rappresentare gli elettori. Ma gli elettori laureati sono l'1,8%. Operai e sindacalisti alle Camere 8,4%. Fra gli elettori 51,1%. Contadini alle Camere 0,1%. Fra gli elettori 28,8%".

E per chiudere l'argomento: "I giornali della sinistra e del centro hanno sempre fatto onore agli scritti della nostra scuola. Questa volta forse faranno coro all'astio delle destre. Allora sarà dimostrato che c'è un partito più grosso dei partiti: il Partito Italiano Laureati".

Sarebbe stato bello leggere in un giornale o in una rivista di partito una difesa o almeno una giustificazione di queste scelte. Saranno ineluttabili, saranno strumentali, saranno sbagliate. Saranno magari giuste; ma allora bisogna spiegarle, che non restino ombre, che nessun operaio e nessun contadino possa davvero credere di essere stato giocato, di aver dato il voto al partito dei laureati anziché a quello degli operai e dei contadini.

Soltanto Lucio Lombardo Radice ha invece risposto, a titolo quasi personale: in sede teorica, i comunisti l'hanno risolto da un pezzo il problema, basta pensare a Marx, a Lenin, a Gramsci, ha detto lo scienziato comunista la sera del 12 ottobre, in un circolo periferico milanese. Tanto di cappello. Ma l'accusa dei ragazzi di Barbiana era un'altra, più modesta e più precisa: contestava la capacità e la volontà del partito comunista italiano a impostare, dalla fine della guerra a oggi, una politica culturale e scolastica sulla misura dei bisogni reali dei contadini e degli operai italiani, non l'universa ideologia marxista. (Anche la Chiesa, in sede teorica, ha risolto tanti problemi: basta pensare al Vangelo. Eppure se un prete come don Lorenzo Milani si mette ad applicarlo davvero il Vangelo, dopo duemila anni, riesce sempre a fare scandalo.) Quanto all'"Unità", ha preso di petto l'argomento, per negarlo. Ecco come concludeva la recensione di Giorgio Bini, pubblicata fin dal 12 giugno:

"Ai ragazzi di Barbiana, che sono gente seria, bisogna rispondere seriamente, polemizzando dov'è necessario. E su un punto non si può non polemizzare. Né a Barbiana né altrove si ha diritto di sottovalutare la scienza e la cultura; né di chiamare gli psicologi "quelli che pensano di poter studiare in modo scientifico l'animo umano", né di voler ridurre la matematica "al programma degli otto anni escluse le espressioni numeriche e l'algebra", né di accusarci di voler preparare topi di laboratorio perché proponiamo una scuola basata sulla scienza né di credere che per la cultura basti "appartenere alla massa e possedere la parola", che i maestri "valgono perché sono stati poco a scuola", che basta studiare fino a diciotto anni per diventare insegnanti per tutto l'obbligo. Non possiamo essere d'accordo e dobbiamo dirlo a questi compagni di Barbiana. Tenetevi le vostre idee di palingenesi universale, che se non altro sono pulite. Scrivete altre lettere e denunciate altre magagne. Mostrate di saper far meglio dello Stato e dei preti. Ma la scienza e la cultura rispettatele. Sennò le lasciate ai padroni".

Come non fossero stati espliciti, i "compagni" di Barbiana a proposito di quella cultura: "Che siete colti ve lo dite da voi. Avete letto tutti gli stessi libri. Non c'è nessuno che vi chieda qualcosa di diverso". E più avanti: "Povero Pierino, mi fai quasi compassione. Il privilegio l'hai pagato caro. Deformato dalla specializzazione, dai libri, dal contatto con gente tutta eguale. Perché non vieni via? Lascia l'università, le cariche, i partiti. Fai strada ai poveri senza farti strada. Smetti di leggere, sparisci. E’ l’ultima missione della tua classe".

E i cattolici? Qualche articolo commosso di amici, sacerdoti, religiosi e laici, su riviste di alto prestigio e di bassa tiratura, i soliti nomi e le solite testate; ma sempre più su don Lorenzo e sulla sua figura di maestro, di sacerdote, di testimone, che sul libro scritto dagli allievi della sua scuola. Dei grandi quotidiani cattolici, solo "L'Avvenire d'Italia" s'è scomodato in modo degno e per ben due volte: la prima il 18 giugno, col franco Ricordo di Paolo Pratesi; la seconda l'8 settembre, col sorprendente intervento dell'arcivescovo di Ravenna, mons. Baldassarri. "Un vero delitto contro la carità" chiama mons. Baldassarri i "pettegolezzi di sacrestia" che bastarono alla Curia fiorentina per esiliare don Milani e respingerne l’impegno radicale di vita evangelica. Un gelido silenzio o, peggio ancora, qualche generico e sciocco necrologio sono stati la norma degli altri giornali cattolici.

Fra i giornali del partito cattolico, solo "Il popolo lombardo", settimanale, si è profondamente commosso alla notizia della morte del prete toscano; e ne ha approfittato per proporre ai suoi lettori alcuni stralci di Esperienze pastorali e delle tre Lettere: ai cappellani, ai giudici, alla professoressa. Neppure i giornali sindacali cattolici, che avrebbero dovuto tenerlo per santo protettore don Milani, sono andati oltre qualche noticina di circostanza; non uno che abbia preso in considerazione, magari per respingerl[a], la più rivoluzionaria fra le proposte dei ragazzi di Barbiana: costituire un sindacato di babbi e di mamme che guidi la rivendicazione popolare per una scuola più giusta.

Resta aperto il discorso sugli insegnanti e sugli intellettuali. Il periodo estivo, di vacanze, di premi e intrallazzi letterari, di sosta editoriale, di numeri doppi e tripli delle riviste culturali e pedagogiche, ha fatto muovere con alcuni mesi di ritardo la macchina delle recensioni specialistiche: è troppo presto per cominciare a tirare le somme.

O prima o poi, è probabile, ne salteranno fuori di frutti edificanti e divertenti, dall'orto degli intellettuali professionisti. Su "Quaderni piacentini" Franco Fortini ha dato il via: "Ancora una volta il fascino, la chiamata, di questo libro-uomo è nella pratica abolizione dei "corpi intermedi": per quanto parli di collettività fraterna, senti che Milani ha in cuore l'Uno-Tutti, uniti dal trattino dell'immediatezza". E via di questo passo, con le maiuscole, le virgolette, i trattini, immediati e no, tutti al loro posto: bisognava esserci, due mesi fa, a Barbiana, a vedere i ragazzi seduti attorno al tavolo a tentare per un poco di decifrare questa prosa irta e impenetrabile e alla fine esplodere in una franca, sana risata. Uno spettacolo che chi non l'ha visto non arriva a immaginarselo (ma chi ha assistito, la sera del 17 ottobre, alla Casa della cultura di Milano, al drammatico scontro fra i ragazzi e Pier Paolo Pasolini può farsene un'idea).

E’ rimasto unico, pur fra i relativamente numerosi interventi di uomini di scuola, teorici e pratici, l'articolo-confessione del professor Gian Giuseppe Moroni, direttore della scuola all'aperto Casa del Sole di Milano, pubblicato sull'"Educatore italiano". Conclude il professor Moroni; ed è conclusione da meditare attentamente:

"E’ necessario rimettere in discussione tutto. E’ necessario assumere un abito e un metodo critico. Valutare serenamente il nostro lavoro, senza preconcetti. Chiederci, ad esempio, se avendo fatto tutto quello che consideravamo possibile fare con quel gruppo scolastico e con il singolo scolaro, non ci fosse o non ci sia altro da fare. La lettera è rivolta a una professoressa, ma il problema toccato ha ben più vaste dimensioni. Siamo convinti che molte pagine, anche quelle che ci trovano d'accordo perché mettono in stato d'accusa un'insegnante di un altro ordine di scuola, sono estremamente utili anche per noi, insegnanti della scuola primaria. Anzi sono rivolte a noi. Nella misura in cui ci sentiamo insegnanti-professori invece che maestri, come dovrebbero sentirsi tutti quelli che fanno professione d'insegnamento, dalla scuola materna all'universitaria. Nella misura in cui ci sentiamo al servizio di una certa produzione culturale più che impegnati a formare degli uomini. Ovviamente qui non è in discussione la preparazione professionale: quella è necessario possederla appunto perché esercitiamo un certo tipo di professione, in una società che vede nella qualificazione e nella specializzazione i mezzi per assicurarsi una produzione migliore, più vasta e al prezzo più conveniente. Ma appunto perché si pretende da noi un certo indice di produzione e noi vogliamo raggiungerlo, pretendiamo pure una certa politica di ridimensionamento circa la consistenza del gruppo scolastico, che ci viene affidato, evitando delle sperequazioni che sono invero paradossali; ma quando il gruppo ci è affidato, dobbiamo sentirci responsabili della promozione umana di ciascuno dei componenti. Perderli per la strada non è un fatto amministrativo: è un fatto morale, che impegna appunto la nostra moralità professionale. Da questo punto di vista dobbiamo esaminare e valutare la nostra abilità tecnica, la nostra capacità di impostare un libero piano di lavoro, la nostra idoneità a svolgerlo. Per tutti".

Sulla "Stampa" Aldo Visalberghi, prevenendo di due mesi giusti le obiezioni già viste di Sensini, aveva scritto, il 2 luglio: "Questa Lettera a una professoressa non è lo sfogo di animi esacerbati, ma un serio e sensatissimo appello a [t]utta la società italiana, un appello che non deve restare inascoltato".

L'ascolto più attento e le risposte ultime toccano agli insegnanti e alle famiglie. E non solo alle famiglie dei poveri, come fanno finta di credere (o forse credono davvero: chissà) i benpensanti impauriti dalle tirate classiste dei ragazzi di Barbiana. Ci siamo dentro tutti fino al collo in questa maledetta crisi della scuola. Finiremo coll'affogarci tutti, ricchi e poveri, se non cercheremo insieme una via d'uscita. L'han detto i ragazzi, come meglio non si potrebbe: "Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l'avarizia". E la ragione è chiara: "La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola. Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d'espressione. Ai ricchi toglie a conoscenza delle cose".

Bisogna insomma trovare la via politica giusta per conquistarci una cultura nuova, vera. Non è una strada facile. Ma è l'unica possibile. A meno di non rassegnarci, tutti, a essere "custodi del lucignolo spento".