Capitolo V°
Il carisma del profeta
Meno di sei mesi dopo la morte di Milani, padre Ernesto Balducci ne traccia un ritratto incisivo e ‘verace’, rispettoso ma non ossequiente, critico ma anche ammirato.
Per spiegare la contraddizione solo apparente per cui il Priore era da alcuni visto come "maestro di libertà" mentre altri ne avversavano "l’assolutismo pedagogico", Balducci scrive che Milani era uno di quegli uomini che "fanno misura a sé e da niente sono misurati": la loro coerenza li rende "irraggiungibili al giudizio oggettivo".
Se, come dice Balducci, "il grande problema della Chiesa d’oggi è di dare la parola ai poveri, di disimparare la propria lingua per far propria la lingua di coloro che non riescono a ottenere udienza nel mondo", allora è giusto dare atto a Lorenzo Milani di aver "tentato la sua via. Poco importa, alla fine, che sia la via giusta: giusta era la sua dedizione, la sua costanza, e la violenza della sua contestazione".
Perciò, anche se relegato nella minuscola parrocchia sul monte Giovi, "immerso nel suo particolare don Milani ha tentato una risposta universale".
Raniero La Valle scrive su La Stampa che per giudicare -anzi, per capire- Milani occorre giudicare la scuola di Barbiana, "perché don Milani era tutto in quella scuola [...] assurda, non riproducibile, non esportabile", nella quale non era ammessa "nessuna diversione dallo scopo fondamentale e totalizzante, della formazione personale". Una scuola che "non era una scuola, era un giudizio sul mondo; sul mondo così com'è stato costruito da quelli che sono stati potenti finora. Per giudicare il mondo bisogna non essere "del" mondo. Don Milani e i suoi ragazzi non erano del mondo, al punto che a volte sembrava non fossero nemmeno "nel mondo"".
In definitiva, Barbiana "non era una scuola, era un’alternativa. Per questo don Milani era così intransigente. Quello che gli veniva rimproverato come classismo, era la feroce difesa di quel pugno di anime che la Provvidenza gli aveva affidato, dalla sopraffazione e dalla contaminazione non di una classe antagonista, ma di un mondo antagonista".
E prosegue: "La sua, più che una riforma scolastica, era una "rivoluzione culturale". E’ stata forse la più coerente proposta di rivoluzione culturale che in questi anni abbiamo avuto in Occidente; e poiché era radicale, non poteva che partire dai pochi; ma si rivolgeva a tutti".
Michele Ranchetti, che parla di non comprensione, di "incomprensibilità" della figura di Milani, al di là delle facili formule, ne scrive come di "un maestro che si sa inimitabile quanto più risultano impropri e sterili i tentativi di verificarne l’insegnamento", un "maestro senza discepoli".
Dopo aver premesso che "con don Milani è ben difficile essere obiettivi", per quanto l’autore si proponga di riconsiderare la figura "con la pacatezza e la serenità dello storico", Gianpaolo Romanato, in uno scritto apparso nel giugno del ’77 sul quotidiano della Democrazia Cristiana, riprende il tema della ‘irripetibilità’: "copiare o trapiantare altrove la scuola di Barbiana, come qualche giovane entusiasta potrebbe essere tentato di fare, sarebbe uno sforzo maldestro e ridicolo. Essa resta un modello irripetibile".
L’autore si domanda se "c’è dunque il segno della profezia nel Priore di Barbiana?". E ne delinea la figura di un uomo che "non fu un pacificatore di coscienze", di grande "passione morale", di cui pure va rilevata "la fragilità culturale di certi suoi scritti, la mancanza "di intelligenza storica"".
Cinque anni più tardi, in un articolo su Jesus, Romanato sembra non aver sciolto del tutto i propri dubbi, anche se arriva a dire che "la durezza di don Milani, la sua immensa solitudine, possono essere il segno che in lui c’era davvero, in qualche modo, il carisma della profezia".
Mario Lancisi, dopo aver annotato come fosse in atto in quegli anni -siamo ancora alla fine degli anni ’70- il "recupero, da parte dell’istituzione ecclesiastica", della figura di don Lorenzo, coglie la "peculiarità e novità" del Priore "nell’assunzione dell’impegno civile come momento centrale della sua esperienza sacerdotale".
L’autore parla di "radicalità del classismo milaniano", del suo cogliere "le contraddizioni e i costi umani [...] del cosiddetto "boom"", degli anni del ‘miracolo economico’, pur in una analisi in cui manca "la nozione del politico", come già aveva fatto notare Pietro Ingrao.
Molto dissimili tra loro le opinioni, espresse a distanza di venti giorni e su due distinte testate legate al P.C.I., di Tullio De Mauro e di Luciano Della Mea.
Per il primo "appare indubbio [...] che don Milani non sia stato un comunista bianco, un contestatore, un ribelle". Egli era "attento fino al conformismo a muoversi entro il quadro delle autorità, leggi e norme costituite, lottando per trasformarle, non per scalzarle e distruggerle".
Per Della Mea "don Milani era un compagno, un comunista [...] non accettava come dato permanente la necessità storica che pure, tutti, in un modo o nell’altro condiziona. Contro tale necessità, che aveva panni sociali, lottava duramente e indefessamente ben sapendo che il di più di libertà sociale, in cui non può non esserci quel tanto di libertà individuale che non sconfini nell’arbitrio, nella tirannia o nella disperazione nihilista, poteva essere conquistato distruggendo gradualmente, praticamente, la necessità data opprimente o avvilente".
Su una rivista di matrice cattolica, Antonino Drago scriverà, due anni più tardi, che per don Milani "la scuola è un terreno di scontro principale nella lotta tra sfruttati e sfruttatori. Infatti la bocciatura non è tanto una colpa individuale o una ingiustizia dell’insegnante, ma è l’espressione finale di un piano politico di selezione ed emarginazione degli strati popolari dalla coscienza sociale e dalla lingua" ed elabora finalmente "una educazione che sa riconoscere che la società è piena di conflitti, e che l'educazione consiste essenzialmente nell'imparare a risolvere i conflitti tra le persone e tra le classi".
Franco Molinari interviene nel gennaio ’84 sulla rivista teorica della Democrazia Cristiana, recensendo il volume che raccoglie gli interventi al convegno Don Lorenzo Milani tra Chiesa, cultura e scuola, "tutti di matrice cattolica", come sottolinea l’autore medesimo.
Dopo aver constatato che "oggi Esperienze [pastorali] rappresenta un classico della tecnica pastorale", egli si domanda perché si sia "fatto tanto chiasso sulla scuola popolare di San Donato o di Barbiana", dato che "l’insegnamento per i poveri, gestito dai sacerdoti, è una tradizione, che risale al Medioevo".
E per spiegare la "vastissima fama" di Milani ricorre a "mille altri fattori in parte riconducibili all’eccezionale statura dell’autentico profeta, in parte al contesto storico, in parte alle strumentalizzazioni politiche" di chi lo ha visto come il "prete rosso"
Molinari mette quindi in evidenza "i risvolti problematici e discutibili" in una vera e propria "litania delle carenze": dall’autoritarismo "terribile", alla "pedagogia durissima"; il tutto condito da "mancanza di una didattica [...], totale incomprensione per le altrui discipline che non fossero l’insegnamento della lingua", da un "iniziale paternalismo del "signorino" colto".
Dopo averne lodato la sua obbedienza alla Chiesa ("di questi profeti obbedienti ha bisogno il mondo". Ma chi sa se don Lorenzo avrebbe sottoscritto questa affermazione...), il nostro autore conclude ricordando del Priore "un certo rigorismo personale verso la donna, che oggi potrebbe parere puritano".
Quello che Molinari non dice, od a malapena accenna, è che molte delle affermazioni di Esperienze pastorali restano ben lontane dall’essere accettate, in primis quelle sul ruolo politico svolto dalla Chiesa, sulla D.C., sulla necessità di "non essere interclassisti" bensì schierati, cioè classisti. Molinari liquida il tutto come un semplice "prendere le distanze [da parte di don Milani; n.d.MM] dal partito ad ispirazione cattolica".
Nel febbraio 1988, in un lungo articolo su Scuola e Città, Antonino Bencivinni delinea alcune linee guida "in direzione della comprensione della posizione politica di don Milani", mettendo in risalto come negli anni ’60 don Lorenzo progressivamente riduca "in notevole misura il suo anticomunismo", e la "scomparsa della valutazione positiva della D.C.", parallelamente ad un "progressivo avvicinamento ai partiti di sinistra".
IL CARISMA DI DON MILANI
di Ernesto Balducci
Testimonianze, Fiesole (Firenze), dicembre 1967, n° 100, pagg. 839-846
Fascicolo monografico Lorenzo Milani, un prete
1. - Erano almeno quindici anni che, sebbene volutamente estraneo alla vita cattolica fiorentina, don Milani ne faceva parte come un punto di riferimento necessario. Prima ancora che giungesse agli onori della cronaca nazionale, egli era nella cronaca i tutti noi come una presenza provocatrice, o rimossa con sommari giudizi di condanna o polemicamente evocata come l’immagine di un profeta irriducibile, che derideva le riviste di cultura e i partiti, le scuole di stato e le scuole dei preti, il marxismo e l’umanesimo integrale, e in genere tutti i valori e gli strumenti del nostro impegno cattolico, compreso il metodo, ch’era quello del dialogo paziente, del confronto rispettoso e delle rischiose collaborazioni. Era difficile capire se il suo isolamento fosse dovuto alla prudenza meccanica dell’istituzione decisa a difendersi da lui, o al suo temperamento spirituale assolutamente avverso alle mediazioni, alle intese compromissorie e agli accomodamenti.
Così come era difficile distinguere in lui l’uomo e l’idea, la passione e la dottrina, il fine e il mezzo, la tenerezza e la durezza, l’ostinazione volontaristica e l’intuizione intellettuale, perché i termini in cui normalmente si esprime l’analisi di un’esperienza umana erano in lui ridotti non già all’armonia ma ad una lega metallica dalla formula chimica introvabile. Non per nulla c’era chi lo considerava passionale e chi freddo, chi maternamente tenero e chi brutalmente duro, chi ammirava in lui soltanto la generosa dedizione e chi restava stupito della sua astratta intelligenza, chi lo giudicava un modello di prete e chi non riusciva a capire a che si riducesse il suo sacerdozio, chi lo additava come maestro di libertà e chi s’indignava per l’assolutismo pedagogico con cui possedeva le coscienze dei suoi alunni. Si sbaglierebbe se si concludesse che si trattava di un uomo contraddittorio o enigmatico. La verità è che il suo carattere era, per natura, estraneo ai modi consueti con cui la personalità umana si apre agli altri per donare o per accogliere, o si slarga nella molteplice esperienza facendosi molteplice o prende contatto con le verità degli altri facendo uno sforzo per riconoscervi la propria verità.
Ovunque l’obbedienza lo avesse portato, don Lorenzo avrebbe fatto quello che fece a Calenzano e a Barbiana, noncurante delle variazioni di tempo e di spazio, coerente ad ogni costo al proprio assoluto. Persino i grandi eventi della Chiesa lo interessavano solo per quel tanto che mandavano riflessi dentro il suo cerchio di certezze rigidamente formato, si trattasse della santità del cardinale Dalla Costa, del pontificato di papa Giovanni o del Concilio ecumenico. Qui era la sua innegabile povertà e la sua innegabile grandezza. Sono rari gli uomini come lui che entrano già bell’e costruiti nella loro missione: essi fanno misura a sé e da niente son misurati. A renderli stupendi è la loro coerenza che però li rende anche irraggiungibili al giudizio oggettivo. Chi li accosta vi trova quel che gli suggerisce la legge delle affinità elettive, o niente o tutto, o questo o quello, senza mai riuscire però a comprenderli, riconducendoli ad un sistema, ad una tipologia qualsiasi. Il peggio che possa capitare a simili testimoni è di diventare gli emblemi di chi, senza capire la loro ricchezza, ne coglie la concreta forza di negazione e obbiettivando in essi la propria incapacità di accettare il mondo, ne fa niente più che dei simboli della contestazione fine a se stessa.
Per mio conto, pur riconoscendo che il mio temperamento opposto al suo mi preclude forse la comprensione di molti suoi aspetti, credo di rendere omaggio a don Milani mettendo in luce quello che a mio parere è stato il suo carisma nel contesto della Chiesa e della società del suo tempo. Non è un caso se don Milani, dopo essere stato nella Chiesa un "fuorilegge", sta entrando così rapidamente nella storia spirituale del post-concilio. Che la sua esperienza si sia consumata in una congiuntura come quella che in questi anni la Chiesa ha vissuto, è anch’esso un indizio della predilezione di Dio nei suoi confronti.
2.- Per comprendere la missione svolta da don Milani bisogna collocarla nella dottrina, appena abbozzata dal Concilio, del significato ecclesiale dei carismi e tener conto dell’inevitabile tensione che, dato il perdurare del suo giurisdicismo, i carismi determinano nell’istituzione ecclesiastica. Nella coscienza cristiana vengono ad incrociarsi due rapporti di obbedienza che hanno remotamente la medesima motivazione, ma nell’immediatezza sembrano destinati molto spesso a entrare in conflitto: l’obbedienza istituzionale e l’obbedienza interiore alla voce della coscienza animata dallo Spirito Santo. Il conflitto sembra non avverarsi nella grande maggioranza dei cattolici, preti compresi, per la semplice ragione che generalmente essi non hanno grande considerazione dell’obbedienza interiore: la loro coscienza si limita a registrare i precetti esterni e ad eseguirli con larghissime e tolleratissime transazioni, aiutati e protetti dal canone interpretativo della mentalità comune. Prima del Concilio non era stato ancora posto con chiarezza il principio che l’autorità ecclesiastica ha il dovere di discernere i carismi e di rispettarli. Finito il Concilio, non è detto che l’autorità ecclesiastica abbia abbandonato i suoi vecchi criteri di governo e soprattutto abbia acquisito la virtù del discernimento degli spiriti. Fa commozione ma anche tanta tristezza il candore con cui oggi sulla nostra stampa ufficiale si parla di un padre Semeria o di un don Mazzolari, due vittime, ormai riconosciute, dell’autoritarismo prudenziale e ottuso. Noi aspettiamo ancora il tempo in cui la Chiesa non si limiterà a rendere onore ai carismi dopo la loro scomparsa: una maternità così costantemente retrospettiva riesce giustamente sospetta.
Don Lorenzo Milani era e rimane una figura discutibile, ma non è stato mai difficile riconoscergli uno straordinario dono di Dio, vissuto nella più radicale fedeltà alla Chiesa. Eppure l’amore della Chiesa egli lo ha sempre ricevuto attraverso il filtro avarissimo della prudenza: la sua solitudine di prete aveva qualcosa di tragico. La sua obbedienza al carisma aveva finito col favorire nei timorati l’opinione che egli fosse disobbediente o almeno irriverente verso le autorità ecclesiastiche, nei cui confronti d’altronde non simulava il suo severissimo giudizio.
Nel recente sinodo dei vescovi francesi il cardinale di Lione dopo aver distinto nella Chiesa cinque tipi di struttura -e cioè istituzioni ecclesiali (sacramento, culto), ecclesiastiche (parrocchie, congregazioni religiose), temporali cristiane (scuole cattoliche), temporali d’ispirazione cristiana (partiti, sindacati) e neutre- riconosceva che eccetto quelle dei primi due tipi le altre sono sempre più largamente contestate dai cattolici e finiva col domandarsi lui stesso se esse sono davvero conformi alla Chiesa, se di fatto danno una testimonianza cristiana e se sono davvero al servizio dell’uomo.
Don Milani, non certo per esplicita analisi teologica ma per intuitiva sicurezza di coscienza, aveva già fatto, per conto suo, questa distinzione e aveva già risposto agli interrogativi restando fedele alle istituzioni ecclesiali e mettendosi in urto con tutte le altre. Aveva scritto un libro che resta un capolavoro di chiaroveggenza pastorale e di applicazione delle tecniche sociologiche alla realtà cristiana: esso fu tolto di circolazione. Da chi? Dalla Chiesa? Aveva fondato una scuola presso a poco con gli stessi criteri con cui tre secoli fa iniziò la sua -la prima del genere- lo spagnolo San Giuseppe Calasanzio (perseguitato anche lui fino all’incredibile dal Sant’Uffizio): fu spostato in un luogo dove per ripetere l’esperienza ci voleva il coraggio e la pazienza degli ebrei di dura cervice. Chi lo mise ai margini? La Chiesa? In nome di una severa visione del sacerdozio denunciò la curiosa mistica dei cappellani militari: fu processato. Si mosse la Chiesa a prendere le sue difese?
Sono pronto a riconoscere che, in tutti questi casi, la Chiesa ha fatto quel che fa normalmente e lo fa in nome del suo potere di reggere il gregge di Dio. Ma allora qualcosa di grave si annida al fondo delle cose: i preti possono dedicarsi al culto della patria (struttura di quinto tipo), a far da galoppini al partito cattolico (struttura di quarto tipo), a organizzare una scuola frequentata dai ricchi (struttura di terzo tipo), ottenendo plausi o riconoscimenti o tolleranza, mentre se essi, restando fedeli alle strutture ecclesiali, denunciano gli equivoci delle altre e affermano nella sua assolutezza il Vangelo, ottengono o riprovazioni o diffide, oppure vengono abbandonati al linciaggio dell’opinione pubblica. Le coscienze più sveglie capiscono ormai l’equivoco: nel rendere omaggio a don Milani dimostrano di sapere quale dev’essere il sacerdote di Cristo e in tal modo danno alla Chiesa una indicazione che vale almeno quanto un congresso sulle vocazioni ecclesiastiche.
3. - Ma anche in un altro senso don Milani ha anticipato i tempi. Ormai è chiaro a molti -e il magistero lo grida con sempre maggior sicurezza- che l’opera missionaria della Chiesa mentisce a se stessa quando pretende di calare sulla situazione umana dall’alto, e non dall’alto della sua potestà carismatica ma dall’alto della sua cultura antica, dei suoi privilegi giuridici, della sua spiritualità di nobile lignaggio conventuale.
La Chiesa deve decidersi a entrare nel processo stesso con cui un misero aggregato umano diventa un popolo, un proletario diventa un uomo libero, un negro diventa un vero e proprio cittadino. Ormai anche le pietre annunciano una verità che ieri nemmeno i profeti potevano annunciare: la Chiesa è segregata dal proletariato, dai popoli di colore, dagli esclusi di ogni categoria. Ha parlato finora un linguaggio che gli esclusi non comprendevano, finché essi si sono decisi a considerarla estranea, in tutto e per tutto complice di quel mondo del potere che ha dalla parte sua la ricchezza, la cultura e perfino le virtù ritenute necessarie al paradiso. Il grande problema della Chiesa d’oggi è di dare la parola ai poveri, di disimparare la propria lingua per far propria la lingua di coloro che non riescono a ottenere udienza nel mondo. Le sue scuole sono scuole di ricchi, la sua teologia presuppone ardui tirocini di metafisica, la sua liturgia è adatta ai silenzi claustrali, il suo diritto è ancora fermo nel ricordare che il potere è dei preti e che i laici devono obbedire e ricevere i sacramenti. E’ vero, le cose stanno cambiando. Ma c’è da domandarsi se cambiano con una celerità corrispondente al cambiamento del mondo. In ogni caso c’è da domandarsi per quali vie la Chiesa sarà davvero la Chiesa dei poveri, una Chiesa che quando dice di non rubare lo dice a Johnson e al rapinatore e quando dice di non ammazzare lo dice a Salazar e al terrorista.
Don Milani per suo conto aveva tentato la sua via. Poco importa, alla fine, che sia la via giusta: giusta era la sua dedizione, la sua costanza, e la violenza della sua contestazione. Egli era davvero a suo modo un guerrigliero: molti di noi che abbiamo deciso di rimanere nelle strutture costituite obbligandoci forse al quotidiano compromesso nella speranza di servire la stessa causa, ci siamo astenuti dal giudicare molte sue mosse incomprensibili perché anche noi avevamo da chiedergli di non giudicarci. Dalla trincea dei poveri egli ci ha invece giudicato più di una volta, ma tocca a noi sopportare in silenzio il suo giudizio, così vicino al giudizio a cui ci costringe il nostro esame di coscienza Sapevamo che il futuro era dalla sua parte, non dalla nostra, che è la parte di un mondo ormai alla deriva.
La parte dei poveri è la parte giusta, non tanto in nome dell’uguaglianza economica-politica, ma in nome del futuro del mondo, il cui germe è là dove i poveri imparano giorno dopo giorno, e forse senza saperlo, i modi e i tempi del giudizio di Dio. Nella minuscola parrocchia di Barbiana la Chiesa è riuscita a crescere nell’interno di un piccolo popolo in crescita: essa non era più, per quei ragazzi, dall’altra parte, era dentro il loro modo di diventare uomini. Immerso nel suo particolare don Milani ha tentato una risposta universale.
4. - Non riesco a capire come don Lorenzo Milani abbia fatto a diventare prete senza cessare di essere totalmente uomo. La sua umanità aveva, a mio parere, dei limiti, ma in estensione, non in intensità. Entrato nella Chiesa e poi nella vita ecclesiastica con una formazione umana già portata a compimento, egli percorse il curriculum scolastico e ascetico del seminario senza soffrir danno nella struttura robustamente laica della sua personalità e tuttavia accogliendo senza riserve i valori costitutivi della vocazione cristiana e sacerdotale. Certe tendenze seminaristiche ed ecclesiastiche ad una modernità di gusti, di maniere e di spregiudicatezza mi sembrano il risultato di un complesso d’inferiorità nei confronti del mondo moderno, le cui forme si ricercano come se bastassero a salvare da una pochezza umana e a dare accesso nell’ambito morale e intellettuale dell’uomo laico da cui gli ecclesiastici sono rimasti per lungo tempo esclusi.
A mio modo di vedere la situazione del prete d’oggi è qui: nel fatto indiscutibile che i modelli tradizionali del buon prete si sono corrosi, hanno perso di validità teologica e storica, ma nel contempo nessun modello persuasivo riesce a prender forma. Un prete oggi deve inventarsi da sé: non c’è più un ambiente sociologico adatto ad accoglierlo tranquillamente e a consentirgli un’ordinaria amministrazione dei sacramenti e del catechismo, né c’è un patrimonio culturale che, una volta assimilato, gli permetta di entrare onoratamente nell’onorata società dei benpensanti.
La secolarizzazione rapidissima delle strutture e delle mentalità tende a respingere o a contestare la figura "sacra" del prete e a misurarlo secondo l’autenticità dei suoi valori di uomo, mancando i quali il suo ministero perde di ogni udienza, fuori che nei gruppi di anime devote, anch’essi in via di assottigliamento. Ci sono valori laici -come la lealtà, la veridicità, l’indole democratica, la fierezza dei convincimenti, il ripudio dei paternalismi d’ogni tipo, la fiducia nella ragione, lo spirito critico, la spontaneità affettiva- che non rientravano nella tavola dei valori della soprannaturalistica pedagogia al sacerdozio e che invece il mondo d’oggi richiede come segni di autenticità, mancando i quali tutto il resto gli sembra una truffa o una compassionevole alienazione. Non intendo dire che don Milani fosse un modello di prete e nemmeno un modello d’uomo: il gusto dei modelli, d’altronde, va ormai lasciato all’agiografia. Solo che egli aveva inventato, con assoluta spontaneità, un suo modo di essere insieme uomo e prete, laico quanto si può essere al punto che i laicisti tendevano a ritenerlo uno dei loro, ma prete quanto si può essere, al punto di sfiorare un certo vezzo di tradizionalismo devoto. Non rassomigliava affatto ad uno dei tanti preti che vogliono fare i laici ed entrano così nell’artificio grottesco, né ad uno di quei buoni laici che vogliono fare i preti ostentando zelo per la Chiesa e per i suoi diritti, perfino nei seggi elettorali. Egli finiva col deludere i laicisti per la sua fede sicura e non dissimulata, e col deludere i buoni cattolici con la sua laicità totale e senza artifici.
Secondo i miei gusti la sua umanità era forse troppo rigida, poco comprensiva dei modi innumerevoli con cui si può essere uomini. Ma quel che in lui mi colpiva era la immediatezza della sua umanità, la sua mancanza totale di orpelli, di mediazioni prudenziali, di incrinature interiori. Chi come me è diventato prete attraverso un tirocinio che va dall’infanzia alla maturità, se mai riesce a conservarsi autenticamente umano porta in sé i segni di uno sforzo, di una serena e lunga sofferenza, di un riserbo prudenziale che fu condizione di fedeltà alla vocazione e forse anche di più duttile comprensione del mistero di incomunicabilità che separa uomo da uomo, prete da prete.
Egli non aveva niente di tutto questo, aiutato forse dal fatto che era entrato nel sacerdozio già uomo e poi si era isolato da noi nel suo ministero solitario. Era di un’altra lega. Per questo gli fu possibile testimoniare che il Vangelo può convivere con l’uomo, può innestarsi nei modi spontanei con cui un uomo è uomo, può acclimatarsi nel mondo nuovo in cui cadranno di sicuro gli umanesimi devoti, le istituzioni sacre, i velluti delle curie le diplomazie ecclesiastiche, le restrizioni mentali, le obbedienze cieche, la cupidigia di fare la volontà altrui, il sottile gusto del disprezzo e la sfiducia per tutto ciò che è quello che è senza essere insieme qualcos’altro.
Per testimoniare tutto questo don Milani ha scelto la via della rottura, si è servito del gruppo dei suoi figli come di una via concreta per raggiungere la totale spoliazione di sé, per aggredire, una volta spogliatosi d’ogni egoismo, il mondo degli altri e far nascere nella coscienza di tutti noi, prelati, preti, professori, comunisti, radicali e giornalisti, il piccolo amaro germoglio della vergogna, che è appena la remota premessa di qualcosa di più, della nostra conversione.
LA RIVOLUZIONE DI DON MILANI
di Raniero La Valle
La Stampa, Torino, 5 giugno 1970
Si riapre il processo di don Lorenzo Milani. A riaprirlo sono le sue lettere, ora pubblicate, che ci provocano a un nuovo giudizio sul prete di Barbiana.
Durante la sua vita, don Milani fu giudicato dal Sant'Uffizio, che sconfessò il suo libro di esperienze pastorali, dal suo vescovo, che lo teneva in esilio in una parrocchia di montagna di trentanove anime, e poi lo accusava di essere un solitario, dai giudici togati che lo perseguirono per il reato di aver proclamato che non la coscienza deve conformarsi alla legge, ma la legge alla coscienza. Oggi il Sant'Uffizio ha cambiato nome, e un po’ anche procedura; quel vescovo, con trecentomila anime, è ancora più solo di ieri, e l'aula del tribunale dove don Milani è stato giudicato sta crollando sotto il peso dei calcinacci e del codici da rifare.
Se il processo si riaprisse con questi giudici, non ne sapremmo molto di più di quanto ne sapemmo ieri, anche se la sentenza, oggi, potesse risultare diversa. Ma, con queste lettere, don Milani torna a giudizio davanti ai suoi giudici naturali, davanti alla cultura italiana e a tutta la Chiesa italiana; è un processo in cui finalmente non si tratta di giudicare, ma di capire; e potrebbe essere un processo ancora più arduo, e dall'esito ancora più incerto.
La scuola di Barbiana
Perché qui non si tratta più di giudicare un libro, o una lettera sull'obiezione di coscienza, o un prete che non ha fatto carriera. Con ogni evidenza, si tratta di giudicare una scuola, la scuola di Barbiana. Perché don Milani era tutto in quella scuola di ventinove ragazzi contadini abbarbicati alla montagna, e che solo per quella scuola resistevano, loro e i loro genitori, alla lusinga della città. Ogni altro discorso su don Milani, anche il discorso sul suo drammatico rapporto con la Curia, sarebbe marginale.
Bisogna dunque cercare di capire quella scuola. Ed è impossibile capirla, se la giudichiamo in base a quello che comunemente si ritiene essere una scuola, anche a voler rivestire i panni dei riformatori più illuminati. Anzi bisogna svestirsi di quei panni perché la "scuola" di don Milani era una scuola assurda, non riproducibile, non esportabile, per sua stessa ammissione. Dodici ore al giorno, 365 giorni all’anno, 366 negli anni bisestili. Tutto in comune, letture, parole, pensieri, incontri, nessun divertimento, cioè nessuna diversione dallo scopo fondamentale e totalizzante, della formazione personale.
Una cultura non tanto per sapere, ma un sapere per servire. Una disciplina austera, uno studio ininterrotto, che non bastava a evitare le bocciature della scuola "vera"; quando i ragazzi di Barbiana andavano a dare gli esami come privatisti nella scuola cittadina, si trovavano di fronte a temi come: "Davanti a un'edicola", e non sapevano che scrivere; infatti non avevano mai visto un'edicola.
Una lettera dei ragazzi
In realtà la scuola di Barbiana non era una scuola, era un giudizio sul mondo; sul mondo così com'è stato costruito da quelli che sono stati potenti finora. Per giudicare il mondo bisogna non essere "del" mondo. Don Milani e i suoi ragazzi non erano del mondo, al punto che a volte sembrava non fossero nemmeno "nel mondo".
C’è una frase illuminante, in una lettera che i ragazzi di Barbiana scrissero ai ragazzi di Piadena, per spiegare com'era fatta la loro scuola. "Ognuno di noi -dicevano- è libero di lasciare la scuola in qualsiasi momento, andare a lavorare e a spendere, come usa nel mondo". Dunque, da una parte c'era "il mondo", dall'altra la scuola di Barbiana. Non era una scuola, era un'alternativa.
Per questo don Milani era così intransigente. Quello che gli veniva rimproverato come classismo, era la feroce difesa di quel pugno di anime che la Provvidenza gli aveva affidato, dalla sopraffazione e dalla contaminazione non di una classe antagonista, ma di un mondo antagonista. La proposta cristiana: "Non fate come i pagani che...", si sposava in lui allo spirito della diaspora, che gli veniva dalla sua origine israelita: la coscienza di un gruppo da salvare a gran prezzo, con tutti i suoi valori religiosi, etici, civili, dalla dispersione e dall'assimilazione nel gran mare del mondo pagano, borghese, cittadino, indifferente ed egoista.
Questo spiega il suo rifiuto di stemperare l'amore cristiano, e la sua paternità sacerdotale, in un amore universale e in una paternità universale, che sarebbero stati più a buon mercato, ma che gli avrebbero impedito di schierarsi e, a suo parere, gli avrebbero fatto tradire l'amore per i suoi prossimi, e la paternità concreta verso i suoi ventinove figlioli.
"Stranieri" sulla Terra
Ma non era una delimitazione egoista. La sua, più che una riforma scolastica, era una "rivoluzione culturale". E' stata forse la più coerente proposta di rivoluzione culturale che in questi anni abbiamo avuto in Occidente; e poiché era radicale, non poteva che partire dai pochi; ma si rivolgeva a tutti. Per la società, essa è più un "segno" di ciò che si dovrebbe fare per cambiarla davvero, che un esempio moltiplicabile. Ma per la Chiesa è anche un esempio. E' l'esempio del ritorno a piccole comunità, capaci di essere straniere e pellegrine sulla Terra. E' l'invito a cercare il rinnovamento non nella facilità, nel disordine, nella moda, ma nel sacrificio, nell'obbedienza, nella fedeltà. Ed è il segno che anche oggi, come tante altre volte, nella storia della salvezza, la sopravvivenza della fede sulla Terra è affidata non alla potenza di una Chiesa acclamata dalle moltitudini, ma a tanti piccoli "resti", che moltiplichino il piccolo resto della nuova Israele, che è nella Chiesa.
I RICORDI DEL BUON BORGHESE
Cosa è rimasto di don Milani
di Giorgio Manzini
L’Astrolabio, Roma, 21 giugno 1970, pagg. 29-30
Un utopista, forse un santo, non certo un prete che aveva abbracciato la lotta di classe.
Ecco l'immagine edulcorata di don Milani quale emerge la sera della presentazione al pubblico delle sue "Lettere".
Ma quali furono i limiti reali del prete di Barbiana?
Milano, giugno. Come chiamarlo innanzitutto? Era un dibattito, era un'occasione per illuminare e discutere l'opera e la figura di don Milani, era un semplice "omaggio" alla sua memoria, oppure era solo un'iniziativa editoriale per il lancio delle Lettere uscite proprio in questi giorni nelle edizioni Mondadori? Molto pubblico, comunque, alla Corsia dei Servi, il centro culturale annesso alla chiesa di San Carlo in cui da anni ormai spira una certa aria di fronda nei confronti della gerarchia ecclesiastica. Numerosi i giovani, quasi tutti studenti universitari. Forse universitari della Cattolica. Sul palcoscenico, dietro il gran tavolo della presidenza, due sacerdoti e un laico, un magistrato di Firenze amico di don Lorenzo.
Si attacca con gli interventi introduttivi, ma prima ci si chiede: sarebbe stato contento don Milani di un'iniziativa del genere? La risposta è immediata: no che non sarebbe stato contento; non sarebbe stato contento del modo, non sarebbe stato contento dell'occasione e non sarebbe stato contento del pubblico. Non si approfondisce il perché non sarebbe stato contento, e si comincia a delineare la personalità di don Lorenzo.
L'accento è inevitabilmente "agiografico", e anche se si sottolinea la durezza, l'inamovibile "scontrosità", la "sgradevolezza", il rigore e l'intransigenza del prete di Barbiana, il tono è quello che si usa per parlare del nonno burbero e severo ma che sotto l'aspra scorza nasconde un cuore facile agli slanci affettuosi. Don Milani un prete classista? Ma neanche per idea. Certo, respingeva con spontaneo fastidio tutta l'ambiguità che si nasconde dietro l'espressione "amore universale". Non voleva assolutamente essere animato da questo "amore universale" ma da un amore particolare, tanto particolare che non superava neppure i limiti della scuola di Barbiana. Non era però classista, era tutt'altro che classista. Ma neppure come maestro, neppure come insegnante? Nessuno ricorda queste affermazioni che si leggono in Esperienze pastorali: "Da quel che abbiamo detto sul dislivello culturale tra classe e classe discende la necessità di ordinare le nostre scuole parrocchiali con criteri rigidamente classisti. A noi non interessa tanto di colmare l'abisso di ignoranza quanto l'abisso di differenza. Se aprissimo le nostre scuole, conferenze, biblioteche anche ai borghesi verrebbe dunque a cadere lo scopo stesso del nostro lavoro. Si accettano forse i ricchi alle nostre distribuzioni gratuite di minestra? Il classismo in questo senso non è dunque una novità per la chiesa".
Nessuno si ricorda di questa frase, e si passa sopra alla questione, che è una questione scottante e anche intricata, per un cattolico. I discorsi comunque si susseguono davanti a una sala puntigliosamente attenta, in un clima in cui si avverte una certa qual commozione. Poi cominciano gli interventi del pubblico, le "testimonianze" dei destinatari delle lettere, e si accendono di colpo le fastidiose luci della televisione.
Si avvicina per prima al microfono una donna anziana, capelli bianchi, la figura minuta, i modi impacciati. Legge il suo intervento e tormenta i fogli con le dita. "Io non appartengo alla categoria degli intellettuali -dice- ma all'altra categoria che [con] don Lorenzo sdegnava, quella dei ricchi". In qualche angolo della sala ci si chiede chi potrà mai essere quella signora cosi "franca", cosi disposta a "scoprirsi". E' la moglie dì Brambilla, si sussurra, l’amministratore delegato della Pirelli, è la sorella di Leopoldo Pirelli. Si leva qualche commento, qualche ah di stupore, mentre la signora continua con i suoi ricordi: gli incontri con don Lorenzo, la visita di don Lorenzo al grattacielo assieme ai suoi ragazzi, e poi la dura sferzante critica di don Lorenzo per un episodio di cui era stato testimone durante quella visita: il licenziamento in tronco di un operaio che aveva avuto la poca avvedutezza di bruciare della carta in un lavandino. "Don Lorenzo era inamovibile di fronte alle mie osservazioni, che mi sembravano dettate dal buon senso -racconta la signora-. Io gli dicevo, ma il gesto di quell'operaio rischiava di causare un incendio, di provocare un disastro, ma lui, niente, continuava a ripetere che non si può accettare un provvedimento del genere, che non si può ammettere che si licenzi un operaio, per qualsiasi motivo". Poi la signora parla del suo ultimo incontro con don Lorenzo, ormai prossimo alla fine. Accanto al capezzale le bozze della Lettera a una professoressa, che doveva uscire di lì a un mese. Don Milani è senza voce, non riesce neppure a sollevarsi dal cuscino, ma trova la forza comunque per abbracciare la signora e per sussurrarle prima una frase sgradevole, "ma come è diventata vecchia", e subito dopo parole piene di tenerezza ("era il suo costante modo d’essere: duro ma anche tenero, affettuoso").
Dopo questo intervento, altra "testimonianza", quella dì un avvocato che, dopo aver parlato di alcuni suoi ricordi personali, legge alla fine una lettera dì don Lorenzo trovata giusto quel pomeriggio in un cassettone. Poi è la volta del figlio dell’avvocato, e anche lui parla delle critiche e delle "umiliazioni" subite da don Lorenzo, ma si avvertono distintamente, nella sua voce, la compiacenza e l'orgoglio di aver conosciuto quel "prete scomodo" così da vicino da averlo addirittura avuto ospite in casa sua, assieme ai "ragazzi". Il giovane, sorridente, spigliatissimo, continua a intessere i suoi ricordi, e devono alla fine invitarlo a smettere perché la sua "testimonianza" rischia di soffocare il dibattito, impedisce ad altri di intervenire. Afferra quindi il microfono un altro giovane che comincia con enfasi, ma anche con un po' di goffaggine: qui si parla di don Milani, dice, come di un prete non classista, e invece lo era classista, eccome se lo era. Poi chiede: perché, per pubblicare le lettere, si è scelto proprio Mondadori, un grosso industriale dell'informazione che farà certo un affare di queste lettere? La domanda viene subito girata ai "ragazzi" di Barbiana presenti in sala. Uno di loro esce allora di furia da una delle prime file e si avvicina al microfono con piglio sicuro. Parla con impeto e anche con una certa aggressività. Precisa innanzitutto: se è stato scelto Mondadori è stato per una ragione molto semplice: assicurava un prezzo di copertina abbastanza basso, mentre la sua organizzazione avrebbe consentito di far circolare il libro dappertutto. Ma non è questo il discorso che gli interessa, non è questo il nodo che gli preme in gola. Dice infatti subito dopo: prima di pubblicare le lettere, i "ragazzi" ci hanno pensato parecchio: alcuni dicevano no, è meglio lasciar perdere e per diversi motivi: primo, perché tutte le lettere raccolte erano di borghesi, di "estranei", mentre quelle indirizzate ai "ragazzi" erano andate in gran parte perdute, distrutte, stracciate. E poi don Milani sarebbe stato senz'altro contrario alla pubblicazione, perché una lettera di solito la si butta giù come un appunto senza quasi neppure rileggerla, quando lui ci pensava dei mesi prima di dare alle stampe uno scritto. Quindi non se ne faccia nulla, sosteneva una parte dei "ragazzi". Ma alla fine è prevalso il parere opposto: era davvero un peccato lasciare nel cassetto documenti che avrebbero fatto capire meglio la figura di don Lorenzo. Ma è stata una decisione a giusta, ponderata? Non avevano forse ragione quelli che dicevano no, non si pubblichi nulla? Perché questa è la constatazione che ora salta vistosamente agli occhi: don Milani è finito ancora in mano di quei borghesi, di quegli "intellettuali" che lui, a un certo punto della sua esperienza, aveva respinto, aveva "cancellato", escluso senz'altro dal suo orizzonte. Ma li aveva esclusi davvero? Si era davvero staccato sino in di fondo da quel mondo che diceva di aver rifiutato? "Ecco -aggiunge il 'ragazzo' con spietata franchezza- a sentire i discorsi di stasera, sembrerebbe di no".
Quello del ragazzo è stato l'ultimo intervento della serata, un intervento "sgradevole", un intervento in "stile Barbiana". Parole che, se hanno indisposto una parte del pubblico, hanno anche messo per un attimo in luce, e con crudezza, le drammatiche contraddizioni in cui don Milani ha portato avanti la sua alta e, in un certo senso, inimitabile esperienza (si può chiamare eroica, di un eroismo tutto di testa, tutto razionale, e tutto immerso nel quotidiano?).
Don Milani era un uomo di chiesa, un uomo profondamente legato alla chiesa, ma anche un "avversario" di quella chiesa che l'aveva "esiliato" a Barbiana, che l'aveva calunniato, umiliato, come scriveva in una delle sue lettere. La sua opera era quindi in polemica con la chiesa, contro una certa chiesa, la chiesa di monsignor Florit, la chiesa gerarchica, la chiesa ipocrita, la chiesa del cardinale Ruffini, la chiesa che parla bene di Franco e che sostiene i candidati democristiani. Era "contro", ma non poteva staccarsene, non voleva staccarsene e ne cercava l'approvazione. Il suo grande cruccio era che l'arcivescovo di Firenze non fosse mai andato a e visitare la sua parrocchia, per vedere, per sentire, per parlare, per discutere, per rendersi conto di persona. Quale stilettata quindi quando l'arcivescovo gli scrisse quella lettera in cui gli rimproverava di essere "un dominatore delle coscienze prima anche ancora che padre", di essere un temperamento solitario sino all’orgoglio, e poi animato da spirito classista e non da spirito di carità. Don Milani ricevette quella lettera quando era in ospedale, irrimediabilmente colpito dal male. La lesse di fronte ai ragazzi e di fronte agli amici che erano andati a fargli visita. Alla fine scoppiò in un pianto dirotto e disse: "fuori di qui, borghesi, siete stati voi che l'avete ingannato". Da allora più nessun "intellettuale" varcò la soglia della scuola di Barbiana.
Ma era stato veramente "ingannato" monsignor Florit? Erano veramente fondate le speranze di don Milani di poter convincere, solo che avesse avuto l'occasione, l'arcivescovo di Firenze?
Prima e dopo don Lorenzo ci sono stati altri "preti disubbidienti". Don Mazzolari, "esiliato" nella parrocchia di Bozzolo, poi don Mazzi, "radiato" dall'Isolotto, per fare gli esempi più noti. Anche loro sconfitti, come don Milani, anche loro obbligati a un certo punto a chinare il capo e ad accettare la regola dell’ubbidienza, anche quando era ingiusta, anche quando era vessatoria. Esperienze dolorose, esperienze significative, e anche grandi nella loro contraddizione, e appunto per la loro contraddizione. E' proprio su questo tema, l'impossibilità di "convincere" la gerarchia, l’impossibilità di "sconfiggere" i monsignor Florit che si sta sviluppando fra i gruppi del dissenso cattolico, un discorso che, se non appare, in questo periodo, clamorosamente alla luce, come è accaduto in passato, è però ricco, teso, denso di inquietudini.
UNA INQUIETA COSCIENZA NELLA SOCIETA’ MODERNA
Il priore di Barbiana continua ad essere al centro di feroci polemiche
di Tullio De Mauro
Paese Sera, Roma, sabato 25 giugno 1977
A dieci anni dalla morte don Lorenzo Milani svolge ancora tra noi l’inquietante compito di evangelico segno di contraddizione. Il rigore delle sue scelte di prete cattolico ha improntato non solo le sue pagine, ma, coerentemente e intransigentemente, l’intera sua vita intellettuale, morale, pratica. L’arte di arrangiarsi, il tirare a campare, il farsi i fatti propri, il fascistico e oggi estremistico "me ne frego" dinanzi ai malanni della società e del pubblico sono caratteri e modi di vita contraddetti dal prete don Milani, in nome anzitutto della sua fede. E contraddetti, ripeto, non solo e tanto con le parole, ma con l’intero suo vivere.
Nel contesto intellettuale e pratico italiano, dove nei gruppi dominanti sovrabbondano gli accomodanti e i menefreghisti, don Milani è stato una singolarità. E’ questo che continua a rendere inquietanti le sue pagine, la sua memoria. Per questo continuiamo a parlarne con calore polemico, pro o contro, e qualcuno cerca di darlo per morto e superato, proprio perché continua ad essere ben vivo, incomodo e puntiglioso, in mezzo a noi.
Di questa persistente presenza morale e politica un quadro ricco di informazioni è stato già dato da Maurizio Di Giacomo, Mario Lancisi, Giuseppe Porporato ed altri nelle quattro dense pagine dedicate a don Milani nel numero 22 (12 giugno ’77) del settimanale cristiano "Com-Nuovi Tempi". Un contributo alla memoria del priore di Sant’Andrea di Barbiana può essere provare a indicare alcune direzioni in cui più forte è stata la sua influenza in questi anni.
Difficile valutare l’influenza di don Milani nell’ambiente ecclesiastico. Da una parte si sono deplorati come strumentali ed ipocriti taluni accenni di santificazione di don Milani da parte di giornali ufficiali della Chiesa di Roma che, lui vivo, lo avevano attaccato malevolmente; dall’altra si è sottolineata la coerenza teologica e sacerdotale di don Milani, la sua obbedienza e, quindi, la sua lontananza dai fenomeni dl ribellismo e di dissenso.
Pare indubbio (ho provato a mostrarlo in un remoto articolo in questo giornale) che don Milani non sia stato un comunista bianco, un contestatore, un ribelle. Quella parte di dissenso cattolico che si qualifica e vive come puro fermento antiautoritario e antiistituzionale pare lontana dalle convinzioni del priore di Barbiana, attento fino al conformismo a muoversi entro il quadro delle autorità, leggi e norme costituite, lottando per trasformarle, non per scalzarle e distruggerle.
Più oscura, ma più profonda è l’influenza di don Milani sul clero che è restato o ha cercato di restare ortodosso. A molti preti e cattolici don Milani ha mostrato la via per restare fedeli alla Chiesa, ma non ai privilegi borghesi, alla Chiesa, ma non agli ordinamenti fascistici, alla Chiesa, ma non alla scuola al servizio delle classi dominanti. La maturazione di una scelta democratica ed egualitaria fra insegnanti, giovani, organismi legati al mondo cattolico deve non poco al suo insegnamento.
Il tema dell’espulsione dalla scuola proprio di coloro che più ne hanno bisogno fu individuato da don Milani fin dal primo libro, "Esperienze pastorali" e fu centrale poi nella "Lettera a una professoressa". Esso è stato ripreso e approfondito da molti studi. Le ricerche sulla quantità e qualità sociale dell’esclusione, sulle sue cause nel tipo di reclutamento e formazione del corpo insegnante, svolte da Cesareo, Barbagli, Dei, Livolsi, Padoa Schioppa, sono state accettate e si sono inserite nel panorama culturale italiano sotto il segno dell’influenza della "Lettera" di Barbiana. Più diretta e dichiarata è l’influenza in talune esperienze di studio e di attività legate a "Orientamenti pedagogici", ai salesiani, al lavoro nelle borgate romane di don Roberto Sardelli e dei giovani del Borghetto Prenestino.
Don Milani aveva indicato un terreno privilegiato su cui gli insegnanti consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente giocano la loro collettiva partita di "Vestali della classe media", escludendo dal completamento dell’obbligo i figli di contadini e operai: il terreno dell’educazione, diciamo meglio della mancata educazione al possesso del linguaggio. Egli sosteneva ciò sulla base della sua diretta esperienza di educatore a San Donato e Barbiana. Anche fuori di Italia, nei paesi anglosassoni, in Germania, lungo gli anni sessanta si sono andate compiendo ricerche in sede tecnica che hanno confermato la diagnosi e le intuizioni di don Milani.
Anche in Italia alcuni linguisti si erano mossi in questa stessa direzione. Proprio nei mesi in cui appariva la "Lettera a una professoressa" teneva il suo primo congresso a Roma la Società di Linguistica Italiana, nata non come società di pura ricerca, ma proprio col proposito di mettere a disposizione della scuola i risultati delle ricerche sul linguaggio e di arricchire la ricerca di tutti gli stimoli e le sollecitazioni provenienti dai bisogni della società e della scuola.
Il lavoro cominciato nella Società di Linguistica Italiana ha trovato poi precisazioni, articolazioni e sviluppi in altre cornici organizzative, come il Movimento di Cooperazione Educativa, il gruppo della "Biblioteca di Lavoro" edita da Luciano Manzuoli, i gruppi sull’educazione linguistica del CIDI, il GISCEL: l’ingegno di alcuni giovani studiosi, rammenterò per tutti Raffaele Simone, si è maturato e ha dato prova di sé soprattutto progredendo e aiutandoci tutti a procedere in questa direzione di lavoro.
Due lavori collettivi, il numero 8-9 del 1976 di "Scuola e città", curato appunto da Raffaele Simone, ed il volume antologico curato da Renzo Renzi e Michele Cortellazzo, "La lingua italiana oggi: un problema scolastico e sociale" (edito dal Mulino di Bologna), consentono di dire che anche tutto questo movimento di studi e di esperienze sull’educazione linguistica è stato profondamente e positivamente influenzato dalla passione e dal rigore intellettuale e morale del priore di Barbiana.
Lucio Lombardo Radice ha accennato una volta al fatto che perfino l’utilizzazione di Gramsci educatore si è rinnovata sotto l’influsso della lettura e dell’assimilazione degli scritti di don Milani. Ci diranno i fatti e gli studi la giustezza di questo cenno. Se oggi un giovane studioso come Franco Lo Piparo torna con occhio diverso a leggere e valorizzare le tesi di Gramsci sul linguaggio e la grammatica ed il loro ruolo decisivo nella costruzione dell’egemonia, ciò si deve anche alla nuova sensibilità che si è creata nelle menti e nelle coscienze grazie al lavoro di don Milani.
A dieci anni dalla morte non riandiamo dunque a una fredda tomba, nemmeno dobbiamo ricorrere a retorica celebrativa. Ci riscalda quel che Croce chiamava il freddo calore degli studi, ci salvano dalla retorica (ce ne tolgono il tempo) i travagli delle lotte per una scuola e una società più democratica, perché compagno degli uni e delle altre è oggi ancora per tanti di noi don Lorenzo Milani.
LA SUA OBBEDIENZA ERA ANCORA VIRTU’
Dietro certe formule facil[i] (prete scomodo, pioniere del dissenso cattolico) si nasconde a volte una non piena conoscenza del parroco di Barbiana - Perché è difficile capire chi fu solo attraverso i libri
di Michele Ranchetti
Paese Sera, Roma, domenica 26 giugno 1977
Lorenzo Milani è morto da dieci anni. Al suo funerale non eravamo in molti. Barbiana, dove è sepolto, è difficile da raggiungere. E poi non molti desideravano essere presenti ricordando quanto poco gradisse le visite dei curiosi. Nessuno piangeva, o si faceva forza: il cordoglio era d'altra natura e sembrava che nessuno volesse cedere al rimpianto, al lutto, alla contemplazione della morte, misurare la perdita di un figlio, un fratello, un amico: il maestro e il priore, la parte pubblica prevalevano, indefettibile figura, sulla sorte mortale dell'uomo. A farne fede stavano i suoi ragazzi verso i quali ciascuno di noi adulti nutriva una sorta di rispettosa paura, per quello che avevano imparato di grande e di cui avrebbero offerto testimonianza a noi e contro di noi. Discepoli senza più maestro, così pensavamo, avrebbero saputo conservare l'esempio senza trasformarlo in dottrina, ad evitare che la cultura scacciata con male parole dal maestro-priore, si reimpadronisse delle sue spoglie. Dopo dieci anni, quell'augurio ha trovato conferma. Quasi ancora temendo i suoi ragazzi o la sua memoria giudicante, la cultura non ha cercato di ricostruire, di metter ordine, di decidere ciò che è vivo e ciò che è morto. Che il '68 se ne sia impadronito, e che siano state pubblicate lettere e testimonianze, che una ampia biografia abbia raccolto documenti minori della sua storia di ragazzo borghese: tutto questo non ha mutato l'immagine di un maestro del nostro tempo alle cui domande il nostro tempo non ha ancora risposto o non sa rispondere. Un maestro che si sa inimitabile quanto più risultano impropri e sterili i tentativi di verificarne l'insegnamento. Nessuno, credo, ha mai provato a scrivere di Don Milani e la storia o la lingua italiana. Oppure, di Don Milani e la crisi della "scuola". Oppure, ancora, di Don Milani e il problema religioso. Sembrerebbe di fare opera morta in partenza anche se, certamente, di tutti questi temi si può trovare traccia nei suoi scritti, che sono pochi e tutti disponibili. Ma è che insorge una difficoltà insospettata, a rileggerli. Essi, cosi chiari in apparenza, modelli di lingua italiana anche se occasionali (non c’è foglietto che sopporti una correzione stilistica, che presenti un’oscurità di dettato) si rivelano per nulla semplici, anzi, quasi impenetrabili e fissi in un disegno concettuale e in una corrispondente chiarezza operativa che sembrano l’esatto contrario del nostro modo di scrivere e di capire. E pertanto non "comprensibili
" se non a prezzo di non potersi confrontare, di non servirsi di essi, quasi costituissero una barriera tra noi e gli altri, una "pietra dello scandalo", appunto anche là dove la proposta è più elementare o la lettera alla madre parla solo di particolari della sua vita di novizio.Le ragioni di questa incomprensibilità non sono evidenti, e non si sa dove cercarle. Quando gli studenti della facoltà di lettere e filosofia di Firenze portano all’esame gli scritti di Don Milani (e sono moltissimi a farlo, per libera scelta, non sono "testi d’esame"), si credono preparati. Hanno letto tutto, hanno letto anche gli scritti su di lui, la biografia della Fallaci e quelle poche monografie a lui dedicate. Non avrebbero potuto trovare altro per "capire". E invece quasi tutti, pur mossi da una buona volontà e da una sicura simpatia per l’autore è come rimanessero al di qua di uno steccato. Lanciano, è vero, delle sonde, dei razzi artigianali verso l’alto (sanno la direzione del bersaglio), ma poi ricadono subito nel più tetro dei gerghi: "era un prete scomodo", è stato fatto fuori dalla gerarchia, "è stato il pioniere del dissenso cattolico", "l’antesignano del ’68" per finire dicendo che "non è stato capito". Sfugge, ad esempio, a quasi tutti il senso e il valore della sua "obbedienza" e la confondono subito con quella che non è più una virtù: per essi tra obbedienza religiosa e obbedienza civile non c’è differenza, se la seconda deve essere discussa, è perché la prima non ha alcun senso. Sfugge -e questo a tutti- che Don Milani "era prete", o meglio lo considerano un dato di fatto della sua biografia, non del suo "carattere". E se dicono che "si è fatto prete" non sembrano accorgersi che l’espressione sia nel suo caso appropriata e di quanto essa sia premessa indispensabile alla lettura degli scritti e alla intelligenza della sua vita.
In realtà gli studenti, ma non solo essi, sono sfavoriti dalla mancanza di un dato essenziale, una mancanza che pesa e si fa sentire come un limite inconsueto nella storia dei protagonisti: nessuno sa (o nessuno ha potuto saperlo) della sua vocazione perché nessuno sa di una sua conversione. E' questo, credo, ciò che impedisce di capire (o è lo scoglio più grave). Sempre, a una storia di vizi e di incertezze, nella vita dei santi (e al modello del "santo" si fa sempre riferimento anche per i non religiosi[)] succede un momento di crisi: può essere un’illuminazione improvvisa, "gratuita", o una persuasione faticosamente raggiunta. Ma vi è sempre un prima e un dopo, una frattura che dispone il percorso intellettuale e morale in due tempi diversi nel secondo dei quali "il prima" interviene come tentazione occasionale o perenne, memoria o spettro. Qui, nella vita di Don Milani, ogni crisi è assente, non vi sono fratture né dubbi. Se la biografia ci dice che "voleva fare il pittore", non può dirci però che egli si sia ritratto con orrore da una vocazione artistica, così come non ci dice cosa e quando e perché "la vita di prima" gli sia apparsa imperfetta e cosa o chi abbia potuto suggerirgli o imporgli di mutarla. Non troviamo, cioè, le costanti dell'itinerario religioso, non troviamo la colpa, l'errore, il ravvedimento, la gioia e la speranza della salvezza. Tutto è invece ugualmente certo e illuminato; ma è una luce che non sembra conoscere le tenebre, che non rivela le ombre e che quindi non sembra darci "la misura delle cose". Inoltre, a questa mancanza di una crisi (e quindi di una "storia") corrisponde negli scritti e, sembra, nella vita di Milani l'assenza di ogni qualsiasi riferimento al carattere "storico" della sua esperienza: la chiesa a cui obbedisce e il "popolo" che egli serve sono quelli di sempre, sono, cioè, categorie perenni, non soggette a mutamenti di dottrina o di stato, riconoscibili per un "carattere" loro impresso ab aeterno. Per questo i compiti che ad essi competono non sembrano dipendere da altro che non sia già detto, fissato nelle tavole della legge e nei vangeli. Il vero e unico nesso che li connette è quindi il rapporto fra istruzione e salvezza. Ne potranno variare, ma non molto, i modi, i cosiddetti "aspetti metodologici", ma questo nesso non può mutare o, se muta, o se la cultura non lo conosce, allora questa cultura "è da buttare". Così, analogamente, se "il popolo" chiede ad altri "la salvezza" cade in errore, in un errore -ma vi è un solo errore- che gli sarà stato suggerito o imposto da quella cultura che ha perduto il suo senso.
Se sono queste le categorie interpretative e determinanti, allora è chiaro perché sia così difficile capire gli scritti di Lorenzo Milani per chi di queste cose -di queste "realtà"- non abbia mai sentito parlare: nella scuola, certo, nella chiesa, per chi sia stato istruito nella contrapposizione fra "cattolici e comunisti", fra "progressisti e reazionari", fra chiesa gerarchica e chiesa del dissenso, fra cultura borghese e cultura marxista creando di orientarsi sul ruolo degli intellettuali nello scontro di classe e di pronunciarsi sul pluralismo: tutti "luoghi teologici" anch'essi ma offerti come strumenti interpretativi e operativi in un diverso disegno, anzi, come "controluoghi politici", "differenze" della istituzione negata. Per essi, una contrapposizione così semplice e primitiva come quella presente in Milani, anzi, non una contrapposizione ma un nesso in un sistema sicuramente e trionfalmente gerarchico non è più comprensibile perché non sembra corrispondere ad alcun sistema di appartenenze, perché non ha riferimenti attuali, non interviene nell'ordine della conflittualità politica, non sembra considerare e accogliere i termini, appunto, della storia individuale e collettiva. Nei dieci anni trascorsi dalla sua morte, il processo di accumulazione di questo tipo di "appartenenze" e di scissioni all'interno di esse sembra ulteriormente accelerato. Non ne è co[l]pita la sua figura, esemplare perché indistinta, insol[u]ta e assente; neppure il suo esempio di maestro senza discepoli.
IL PRIMATO DELLA FEDE NELLA VITA DI DON MILANI
di Gianpaolo Romanato
Il Popolo, Roma, domenica 26 giugno 1977
M'ero proposto di scrivere un articolo obiettivo su don Lorenzo Milani. Di riconsiderare con la pacatezza e la serenità che dovrebbero essere proprie dello storico le idee, l'azione, la testimonianza di questa singolarissima figura di prete, esattamente dieci anni dopo ch'egli è morto. Son tornato perciò a sfogliare i suoi scritti, le sue Esperienze pastorali, le lettere, i documenti del processo, la Lettera a una professoressa. Quel poco cioè che ha lasciato di scritto. E mi sono accorto che con don Milani è ben difficile essere obiettivi. Quasi senza accorgermene sono ripiombato nel vortice di una esperienza umana straordinaria e travolgente. Ho provato le stesse sensazioni e le stesse emozioni di quando, giovane studente senza esperienza, guardavo al Priore di Barbiana con la trepidante passione di chi cerca una luce nella notte.
In questi dieci anni l'Italia è molto cambiata. L'obiezione di coscienza non è più reato, la scuola si sta rinnovando, le disuguaglianze sociali sono meno stridenti. Eppure penso che don Milani non avrebbe di che rallegrarsi dell'Italia d'oggi. La sua ribellione era d'altra natura. Era una di quelle ribellioni che non si placano mai perché, nonostante le apparenze, non era né politica né sociale, ma religiosa. Per questo continua ad infiammarci e ad esaltarci. Egli pensava al Regno di Dio. Nessun traguardo, nessuna legge poteva bastargli. Scriveva nel 1950 ad un suo parrocchiano comunista: "Il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l'unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: beati i... fame e sete" [così nel testo; n.d.MM].
Considerare don Milani un prete rosso, un comunista in tonaca, significa o non conoscerlo o non averlo capito. Nel processo per l'obiezione di coscienza ci tenne a precisare che il direttore di Rinascita era imputato insieme con lui solo "per motivi procedurali, cioè del tutto casuali"; il fatto in sé, aggiunse, "non giova alla chiarezza, cioè alla educazione dei giovani che guardano a questo processo". E molto prima, con la consueta, brutale sincerità, aveva scritto che "la dottrina del comunismo non vale nulla. Una dottrina senza amore. Una dottrina che non è degna di un cuore di giovane". Solo interessate deformazioni dei fatti, e un clima politico avvelenato poterono farlo apparire ciò che non era.
La preoccupazione di don Milani era la stessa che spinse Simone Weil a consumarsi in una fabbrica: la scristianizzazione del popolo, "la progressiva defezione dei poveri dalla Chiesa", la necessità, per recuperarli, di condividere la loro miseria e la loro sofferenza. "C'è qualcuno -scrisse nelle Esperienze pastorali- che per un po' di lavoro, un po' di casa, un po' d'aumento, un po' di giustizia umana, per queste quattro stupide piccole cose umane che io non ho saputo riconoscergli a tempo, gli ruberà la fede".
Il primato non spetta alla giustizia, spetta alla fede, alla salvezza eterna. Ma per recuperare il popolo alla fede bisogna prima fargli giustizia. E un prete che chiede giustizia non può limitarsi a scrivere o a parlare, deve condividere la miseria di coloro che difende. Ecco, perché don Milani, borghese d'origine, d'estrazione intellettuale, allievo dell'Accademia di Brera, si fece prete, accettò d'essere parroco d'una delle più sperdute e desolate parrocchie d'Italia, scese consapevolmente tutti i gradini della scala sociale fino ad essere povero fra i poveri, miserabile fra i miserabili, analfabeta fra gli analfabeti. E di lì lanciò un grido che non cessa di turbarci. "Mi fa tenerezza -scrisse ad un confratello che gli chiedeva consiglio- il pensare come sei giovane per addentrarti nell'immensa solitudine di chi cerca solo di salvarsi l'anima. Ma solitudine per modo di dire. Si perde tutti i superiori, quasi tutti i confratelli, tutti i signori, quasi tutti gli intellettuali e si trova in compenso tutti i poveri, gli analfabeti, i deficienti".
La personalità di don Milani può facilmente indurre in equivoci se si dimentica questa sua insistenza sul problema della salvezza eterna. Non è un fatto né casuale né episodico. Nelle lettere ai suoi ragazzi raccomandava soprattutto la confessione, la comunione, la Messa e non tralasciava neppure di ricordar loro che dovevano "giungere così al matrimonio per aver diritto di trovare una donna così". Tutto questo perché, scriveva ancora, "prima di tutto c'è Dio e poi c'è la vita eterna. E poi ci sono gli anni che passano. Gli uomini che sbagliano, invecchiano e muoiono: quelli che hanno ragione non invecchiano. Tutto sta dunque nel riuscire ad avere ragione davvero". La sua ragione consisteva nel mettersi in fondo dalla parte degli umiliati e degli offesi.
Dopo il processo, quando l'Italia intellettuale e progressista andava in pellegrinaggio a Barbiana, don Milani divenne ancor più intransigente. "Ci ho messo ventidue anni per uscire dalla classe sociale che legge L'Espresso e Il Mondo. Non devo farmene ricatturare neanche per un giorno solo... Nelle chiesuole dell’élite intellettuale tutti hanno letto tutto e quel che non hanno letto fingono d'averlo letto... Barbiana è un'altra cosa, una poverissima scuola di montagna dove si legge poco, si scrive poco, ma quel poco è tanto pensato che alla fine fa impressione persino a noi".
Vivendo coi paria della società s'accorse che ad essi manca solo una cosa: la parola. L'inferiorità culturale nasce da un'inferiorità di linguaggio. Da quest’intuizione, che oggi è quasi una verità da salotto, nacquero trent'anni fa la scuola popolare di San Donato di Calenzano e vent’an[n]i fa la scuola di Barbiana. Il sacerdozio di don Milani si tradusse nel far scuola e il far scuola nell'insegnare a parlare, ad usare il linguaggio.
Quella che un po' pomposamente è stata chiamata rivoluzione culturale era in realtà consapevolezza che sotto il peso di un'ignoranza secolare rimangono schiacciati anche i valori umani più immediati, anche i valori religiosi. La religione inculcata in un popolo ignorante diventa presto superstizione. Sotto questo profilo le Esperienze pastorali rimangono ancor oggi un documento a tratti sconcertante del paganesimo e della superstizione che allignano sotto forme di vita apparentemente cristiane in larghi strati popolari. Ed ugualmente vera appare la sua intuizione che modelli di vita consumistici ed edonistici non sono la causa "ma la conseguenza di un materialismo che da generazioni è radicato anche sotto forme religiose".
Far scuola significava dunque, per don Milani, due cose: restituire ai più umili la consapevolezza della loro dignità, dei loro diritti, della loro forza; elevare i loro interessi, "risvegliare dal fondo dell'anima quella naturale sete di sapere che è spesso seppellita negli infelici e che è la premessa più necessaria per il loro ritorno alla fede". Egli infatti era convinto che la fede non è "qualcosa di artificiale aggiunto alla vita" ma è "un modo di vivere e di pensare".
Certo una scuola del genere impone una sincerità totale. Quella sincerità che per don Milani fu una ragione di vita, come spiega in una lettera: c'è bisogno "di un prete povero, giusto, onesto, distaccato dal denaro e dalla potenza, dalla Confida, dal Governo, capace di dir pane al pane senza prudenza, senza educazione, senza pietà, senza tatto, senza politica, così come sapevano fare i profeti o Giovanni il Battista. Un prete che si schieri dalla parte del giusto, del vero, del debole, e smetta di difendere i "suoi" per partito preso, ma li difenda solo in quei pochissimi casi in cui la loro causa coincida perfettamente con la causa cristiana".
Copiare o trapiantare altrove la scuola di Barbiana, come qualche giovane entusiasta potrebbe essere tentato di fare, sarebbe uno sforzo maldestro e ridicolo. Essa resta un modello irripetibile, soprattutto per il suo irripetibile maestro la cui testimonianza, man mano che passa il tempo, acquista sempre più il valore di una solitaria ed eroica profezia.
C’è dunque il segno della profezia nel Priore di Barbiana? Arduo e impegnativo quesito. Molti elementi possono indurre a pensarlo. La sua grande solitudine. Non solo fisica ma soprattutto spirituale. Visse in un perenne contrasto con la gerarchia ecclesiastica ma fu anche assai lontano, nonostante le apparenze, da quello che, particolarmente in questi ultimi dieci anni, si è venuto configurando come il dissenso cattolico. Detestava le raffinatezze teologiche, disprezzava il possibilismo morale. La sua ortodossia è assoluta. Gli si potrebbe anzi imputare, se questo fosse una colpa, un eccesso di moralismo. Il suo cristianesimo si riduceva ai dieci Comandamenti. Il dubbio di uscire dalla Chiesa non lo sfiorò neppure perché, scrisse, "ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altro andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa".
Certo non fu un uomo obiettivo, non fu un pacificatore di coscienze. Ma la sua scelta radicale in favore dei poveri, quella che gli viene rinfacciata come una forma di classismo, è una scelta che, pur nella sua unilateralità, appartiene alla più nobile e ortodossa tradizione cristiana. Basta rileggere l’epistola di San Giacomo. Don Milani stesso d’altronde ammetteva di non aver seminato che "contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero". Ma dietro queste rampogne c’era la passione morale d’un uomo che vedeva nel materialismo e nell’edonismo della nostra epoca (che sta mitridatizzando "ai veleni perfino il prete") il più subdolo nemico del cristianesimo. "Aprirgli la porta -diceva- significa accettare il tono della società in cui viviamo, rinunciare a dar noi il tono al mondo".
Questo prete con la frusta in mano indubbiamente urta spesso il nostro buon senso. Non aveva torto il suo arcivescovo quando lo accusava di essere un "assolutista", di mancare talora di "carità pastorale", di possedere uno "zelo fustigatore" che lo faceva essere "dominatore delle coscienze prima ancora che padre". Ed ha ragione pure chi ha rilevato la fragilità culturale di certi suoi scritti, la mancanza "di intelligenza storica", l'avversione e il disprezzo "per quella tradizione, per quella cultura, per quella storia in cui consiste la nostra civiltà" (N. Matteucci in "Il Mulino", gennaio 1970).
E' vero. Ma don Milani non era uno storico, era un moralista. Non era un intellettuale, era un prete. Non era uno storicista, era un manicheo. E comunque il nostro buon senso diventa ben misera cosa davanti all'austera, granitica fermezza di quest'uomo che non concedeva ai suoi ragazzi neppure la distrazione d'una bibita o d'un gelato perché, diceva, "non esiste alcun motivo fisiologico per cui possa occorrere di levarsi la sete con qualcosa di diverso dall'acqua potabile ".
PIANGERE UN PO' MENO NELLA VALLE DI LACRIME
di Luciano Della Mea
Rinascita, Roma, 15 luglio 1977, pagg. 45-46
Non ho mai conosciuto personalmente don Milani. Quando era in vita una compagna atea e scientificamente dotata, Maria Timpanaro, una volta mi chiese del denaro per l'opera di don Milani. Io non sapevo allora chi fosse e che cosa facesse (e il fare era il suo modo di essere) don Milani, e siccome avevo un filone dogmatico anticlericale, quasi podrecchiano-positivista, rifiutai il contributo. Più tardi mi sono vergognato di questo settarismo ideologizzante e quindi ottuso, e ne ho fatto pubblica ammenda, ma intanto don Milani era morto. Se fosse stato ancora vivo, forse, prendendo coraggio, sarei andato a Barbiana e avrei fatto quello che lui, giustamente, voleva, per combattere uno sbocco facile della sua esperienza magistrale (nel senso di un autentico magistero), cioè il richiamo individualista e anche mondano di tante anime in pena ma logorroiche, un po' da cristiani o da laici personalistici per il socialismo (che è collettivo anche se non deprime o non dovrebbe deprimere la creatività, l'energia, la disponibilità individuale, come al contrario sostengono, oggi, i teorici di Comunione e liberazione, che in nome della persona accettano il personale imperialistico e negano che il socialismo possa essere democratico appunto perché collettivista. E non a caso quelli di Comunione e liberazione "amano" don Giussani e deplorano, odiano don Milani. Se fossi andato a Barbiana, sarei stato zitto per capire e imparare.
Secondo me don Milani è un compagno, un comunista. Lui ebbe la forza di non uscire da una chiesa magra, asfittica e crudele. Si sentiva lui chiesa, non in modo presuntuoso, ma soffrendo sulla base di una esperienza sociale, l'ingiustizia temporale che, secondo Milani, offendeva Cristo, la tradizione, e non mandava nessuno in cielo, in paradiso. E poi quale cielo? Don Milani avrà certamente desiderato di andare all'inferno, l'inferno dantesco tanto per dare dell'inferno un'idea concreta, e laggiù o lassù avrebbe fatto "scuola" perché, come è successo tante volte in uomini e tra uomini creativi, come è successo nella Resistenza, "la speranza non è mai morta".
Don Milani stava nella chiesa e la nutriva di fatti e di idee "temporali": contro il cottimo, contro il militarismo, contro la selezione, contro i ricchi, contro l’ipocrisia, la superficialità e l'inganno, contro l'autorità dispotica per il lavoro fatto bene fra chi da sempre era ed è costretto a lavorare, magari anche bene, ma per ingrassare altri e renderli pingui in ricchezza e potere. E sosteneva, non contro ma assumendosi moralmente e con sofferenza la eterodossia non cristiana dei "principi" della chiesa, le ragioni di base. Queste: la terra è certamente una inesauribile valle di lacrime ma si possono fare umanamente e politi[ca]mente cose per cui diventi possibile piangere il meno possibile, e quindi evitare la reazione al pianto che è cattiveria e crudeltà, e quindi eliminare storture e ingiustizie. E questo, per uno che crede nella redenzione e nel paradiso, è anche il solo modo intelligente per arrivarci e farci arrivare, perché don Milani doveva essere terrorizzato dall'idea di finire in paradiso da solo, e forse anche per questo aveva, rispetto al suo modo di concepire la vita e la morte, una capacità autocritica dura e severa, più tollerante e dolce con gli altri che con se stesso.
Insomma, don Milani non era un frazionista e neppure un opportunista, e questa è la condizione di base (lo dico non per sentenziare ma in modo autocritico) per essere o diventare comunisti. Sotto questo aspetto, don Milani ha punti di conta[t]to con Umberto Terracini. Quando Terracini dice a Leonetti, a Tresso e ad altri compagni (e glielo dice da compagno) che, pur avendo probabilmente ragione (perché ragione la si ha solo probabilmente ora e dopo), essi non dovevano abbandonare il partito, dovevano accettare la sconfitta di potere per attendere semmai la vittoria della storia, che è un fatto sociale; e quindi dovevano attendere le ragioni della storia accettando un ruolo non più dirigente ma di base (cosa che Terracini ha fatto, confinato dal fascismo ed emarginato anche dalla organizzazione comunista, non certo dal comunismo); Terracini dice sostanzialmente quello che don Milani, nel suo piccolo, praticava.
Ma questa è chiesa, cattolicesimo, illibertà, replicano subito gli individualisti radicalsocialisti. Invece, non è vero. Uno come don Milani non accettava come dato permanente la necessità storica che pure, tutti, in un modo o nell'altro condiziona. Contro tale necessità, che aveva panni sociali, lottava duramente e indefessamente ben sapendo che il di più di libertà sociale, in cui non può non esserci quel tanto di libertà individuale che non sconfini nell'arbitrio, nella tirannia o nella disperazione nihilista, poteva essere conquistato distruggendo gradualmente, praticamente, la necessità data opprimente o avvilente, andando avanti con la fatica conseguente e il piacere di far valere, nel di più di libertà, la fatica.
Don Milani era infine un uomo di scuola. Ma per lui la scuola era tutto, non un corso, un anno scolastico -aule e vacanze-, degli esami, dei voti, delle bocciature, contrapposizioni di classe fra allievi e insegnanti. Per don Milani tutto era scuola perché la vita è scuola, e allora per fare una buona scuola bisogna saper vivere con semplicità, cioè con purezza, che non è un alibi deamicisiano per espungere le contraddizioni, le difficoltà, gli antagonismi.
Don Milani tendeva all'unità, e sapeva che l’unità è possibile, anche se non sicura, solo fra coloro che hanno bisogno di unità perché sono frazionati dalla vita, in famiglia, a scuola, sul lavoro. Fra Pirelli e Agnelli non esiste unità umana in senso politico. Esiste certamente unità d’interessi economici, anche se con contraddizioni intercapitalistiche o interimperialistiche. Ma fra i ragazzi figli di contadini e di braccianti, che erano compagni dì vita di don Milani, l'unità non solo era necessaria ma era anche una conquista di libertà.
La scuola non era una istituzione esterna a questa conquista, uno strumento, ma un modo di vita dove la divisione veniva superata. Oggi ci sono teorie non prive di verità che tendono ad abolire la scuola (Musatti, Illich), la famiglia (Laing, Cooper), i manicomi (Basaglia, Pirella -mentre Jervis è diventato un antimanicomiale baronale), il carcere, per non parlare degli anarchici che vogliono abolire l’istituzione più grande, lo Stato. Sono teorie che aiutano ma che forse peccano di coraggio teorico generale (dal punto di vista pratico, quando ci sono dei risultati anche piccoli, nulla da eccepire). A me pare che don Milani avesse un'idea e una fantasia più vaste, complessive e rigorose, da cui derivava una capacità di comprensione e di opposizione a tutte le ingiustizie emarginanti e nello stesso tempo una disciplina militante più compatta e severa, e più difficile.
Il senso della storia di don Milani, che è poi il senso del suo magistero, un magistero praticamente di classe e teoricamente universale nel senso che il riscatto doveva essere sì contemporaneamente contro qualcuno ma poi di tutti, a me pare che stia nel suo rapporto con il comunista Pipetta: come Camillo Torres, don Milani sarebbe stato disponibile, visto che lo disse e visto che misurava le parole anzi le sceglieva con cura e parsimonia, a espugnare con il comunista Pipetta la villa del ricco per socializzarla; ma con la prudenza e la fermezza mentale, nel suo caso religiosa, di uscire subito, di non amministrare quella villa (vecchia o nuova?) da uomo di potere, per restare appunto uomo di scuola, e quindi con la possibilità di dire al neopotente: ti combatterò in nome di dio, che per don Milani era sì trascendente individualmente ma che socialmente era immanente, era l'umanità, e prima di tutto l'umanità sfruttata, il senso della storia e quindi del comunismo.
Secondo me don Milani, in questo riassumere in sé, vivendola, la contraddizione fra il soggettivo e la socialità, è stato maestro di vita e quindi compagno, e nella sua severità indulgente (più severo con se stesso che con gli altri, indulgente con gli altri e meno con se stesso), ha dato una lezione irreversibile di democrazia, che così ha reso nuova dentro l’istituzione che distruggeva nell'atto stesso di tendere
a rinnovarla praticamente.
LA FINESTRA DI BARBIANA
Impegno civile e coscienza religiosa
nella vicenda di don Lorenzo Milani
di Mario Lancisi
L’Unità, Roma, 22 settembre 1977, pag. 3
In uno dei suoi ultimi bigliettini, con i quali comunicava con il direttore spirituale don Bensi, non potendo più parlare a causa dell'impiagamento della bocca, don Lorenzo Milani scrisse, riferendosi ai suoi ragazzi che lo assistevano con cura: "Io non ho mai fatto a nessuno quello che questi figlioli fanno a me. Passo le nottate a ammirarli". In queste parole è racchiuso il senso più autentico dell'esperienza milaniana: la dedizione totale per un gruppo di ragazzi, figli di operai e di montanari.
A San Donato a Calenzano prima, nell'esilio di Barbiana poi, don Lorenzo Milani concepì e visse il sacerdozio come condizione ottimate per la liberazione degli oppressi.
Un suo amico operaio, che gli fu vicino negli ultimi anni e che ha avuto la fortuna (e l'onore) di parlargli a tu per tu senza la presenza solita dei ragazzi, mi ha raccontato che l'ideale a cui l'umanità doveva tendere era per don Milani l'adorazione di Dio. Ma questa posizione paradisiaca era impossibile da essere raggiunta finché nel mondo fosse regnata l'ingiustizia; il compito del cristiano, nella tensione verso la meta ideale, doveva consistere in una lotta intransigente contro tutti gli ostacoli (leggi: ingiustizie sociali) che impediscono la contemplazione di Dio. Fin qui la concezione milaniana coincideva perfettamente con la dottrina cattolica: questa coincidenza è oggi alla base dell'operazione tesa al recupero, da parte dell’istituzione ecclesiastica, della figura e dell'opera di don Lorenzo Milani.
La valenza dell’esperienza milaniana nella storia della Chiesa del dopoguerra non è dunque una valenza teologica: sotto questo aspetto non ha nulla da spartire con le tematiche delle teologie di avanguardia, che si sono succedute dal Concilio ad oggi. La sua peculiarità e novità rispetto ai modelli ecclesiali allora dominanti consisteva nell'assunzione dell'impegno civile come momento centrale della sua esperienza sacerdotale.
La dimensione trascendentale della Storia era vissuta come momento "diverso" ed "interiore" rispetto alla dimensione immanente: la fede, cioè, per essere autentica presupponeva, come momento precedente, la politica. Alla sua radicalità religiosa corrispondeva una pari radicalità sociale. Proprio perché era "obbedientissimo" a Dio (più che alla Chiesa) egli fu un "disobbediente" alle leggi e ai meccanismi che presiedono all'ingiustizia sociale.
Questo modo singolarmente laico di concepire e vivere il rapporto tra fede e politica è facilmente riscontrabile nei suoi scritti e nelle sue lettere. In una di queste si legge: "Se mi facessero far scuola ai figli dei ricchi obietterei. Non si può far scuola senza amare la sua famiglia e non si può amare una famiglia senza amare il suo mondo. Ma il mondo dei ricchi non si deve amare. Allora bisogna obiettare prima d'innamorarsi del primo ragazzino figlio dei ricchi. Sono talmente convinto di questo che dico, che considererei pervertito un prete che avesse fatto scuola 20 anni ai figli dei ricchi e non fosse ancora diventato reazionario. Cosi come considererei pervertito un prete che fosse vissuto 20 anni tra i figli dei poveri e non si fosse ancora schierato con loro fino all’estremo limite consentito dal V comandamento!".
Una vita tra i poveri
Un prete che vive tra i poveri e non si schiera totalmente dalla loro parte è dunque, un "pervertito". Questa come l'altra espressione ("Il mondo dei ricchi non si deve amare") danno il segno della radicalità del classismo milaniano: egli comprese -come giustamente ebbe a notare Pietro Ingrao nel n. 100 di Testimonianze- "la nozione della scissione di classe".
Ma l'originalità della posizione di don Milani, rispetto anche ai modelli della sinistra cattolica post-conciliare, sta nell'equazione: assolutismo religioso-radicalismo sociale, per cui l'intensità dell'amore di Dio era pari all'intensità dell'amore dei poveri. Interessante per cogliere l’altra faccia del classismo sociale presente nella lettera sopra riferita, cioè la sua genesi profondamente religiosa, è un'altra lettera pubblicata da "Note mazziane". In essa si legge in conclusione: "L'arte dello scrivere è la religione. Il desiderio d'esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l'amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo s'intuiscono le fa trovare a noi e agli altri. Per cui esser maestro, esser sacerdote, esser cristiano, essere artista e essere amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa". Pertanto mi pare che abbia colto nel segno Ludovico Grassi quando sostiene (cfr. Una scadenza e un anniversario: Giulio Girardi e Lorenzo Milani - in Testimonianze n. 193) che don Milani -come don Girardi: il parallelo del Grassi, per quanto appena accennato, appare interessante e meritevole di futuri sviluppi- ha colto un nodo centrale di oggi, cioè "il dovere per il credente di non eludere lo spessore della cultura, della lotta di classe, degli schieramenti drammaticamente oggettivi, l'impossibilità di recuperare o salvare la trascendenza senza un rigoroso "metodo d'immanenza"".
Di questo metodo d'immanenza mi pare permeata in maniera esemplare una lettera di don Milani al magistrato fiorentino Gian Paolo Meucci (compresa nel carteggio inedito da me stesso pubblicato in "...E allora don Milani fondò una scuola ". Lettere da Barbiana e San Donato, ed. Coines, Luglio 1977), la quale racchiude alcune delle più pregnanti tematiche milaniane: "Te che t'intendi di diritto penale mi dici cosa sono le tasse? Sono un'espressione d'amore per il re oppure la contropartita di qualche servizio che ci fa chi le piglia? Nel secondo caso ai barbianesi che servizi vengono prestati dallo stato? Pensa che il servizio postale non solo non funziona, ma semplicemente non è contemplato nella gita. Se ci fosse un giorno al mese p.es. in cui la posta arrivasse a casa si potrebbe dire che il servizio c'è. Ma qui bisogna andarla a prendere all'ufficio. Strada, acqua, luce, scuola, ferrovia ecc. sai già come stanno. E allora quali sono i servizi che non ci sono venuti in mente? Mandamelo a dire perché qui i ragazzi pensano che gli unici servizi di cui fruiscono sono le guardie forestali a far contravvenzioni di 1000 lire per pecora e il servizio postale soltanto nel giorno che arriva la cartolina. Siccome ogni famiglia spende 5 o 6 mila lire l'anno di tasse non si potrebbe organizzare un bello sciopero dei contribuenti di Barbiana è poi trascinare in tribunale lo stato per truffa continuata aggravata a danno dei minorati minorenni civili e con intimidazione, mano armata ecc. ecc. (...). Vorrei che tu ci fossi stato in queste sere. Avresti visto dai più sonnolenti quercioli scaturire una vitalità inaspettata. Uno zampillare di idee nuove, di argomenti, di pensiero lungamente meditato. Ti basti sapere... che ognuno la pensa a modo suo e che non c'è due lavori uguali. Ti pare poco? Fin'ora non mi c'ero mai ritrovato. Che vuol dire toccare la corda che vibra! e come siamo stupidi quando pensiamo che ci sia gente che non ha neanche una corda capace di vibrare. Ma vedrai che tra poco ne vibra a decine. Mi par d'essere uno che ha trovato un sassofono seppellito a Pompei e lo fa suonare. Anzi no: un telaio. Son secoli che era capace di buttar fuori tela e nessuno gli ha dato la via e tutta quella tela è andata sprecata. Anzi neppure queste due poetiche immagini indicano il crescendo di possibilità sprecate. Diciamo allora che mi pare di seminare il grano trovato nelle tombe dei faraoni e calcolare matematicamente quanto grano avrebbero potuto produrre in questi 4 mila anni sprecati (...). Non pensi che il mondo avrebbe tutt'un'altra faccia se i montanari avessero saputo leggere e scrivere e non farsi fregare? Mi parli degli alloggi. Ci starebbe bene un dialogo tra sfrattati senza tetto disoccupati e barbianesi. Ho qui una decina di case disabitate con intorno abbastanza olivi e bosco per non morire né di fame né di freddo. Ma nessuno dei tuoi disoccupati e senza tetto pensa di venire in su e risalire la strada che i suoi genitori o forse lui stesso o forse i nonni avevano "disceso con tanta baldanzosa sicurezza". Dunque vedi che neanche la casa e il lavoro sono il massimo bene dei poveri. Dunque se non mi provi qualcosa in contrario io seguiterò a incitare i montanari a accelerare l'esodo".
La lettera appare esemplare in quanto racchiude in sé alcune delle molteplici tematiche milaniane. Primo: il conflitto tra la società degli oppressi e lo Stato, sentito come "Potere" e come la roccaforte istituzionale dell'avversario di classe. Don Milani coglie l'estraneità dei montanari dallo Stato, che appare loro solo nella funzione repressiva: la riscossione delle tasse e le contravvenzioni. Lo Stato è nemico dei barbianesi come lo è dei contadini e montanari dei villaggi dell'Italia meridionale: si pensi -per fare un'esemplificazione letteraria- al romanzo "Fontamara" di Ignazio Silone, dove lo Stato viene sentito dai fontamaresi come "Potere" lontano e inaccessibile; che entra nella loro storia di fatica e di dolore soltanto per riscuotere le tasse e per chiamare i giovani a guerre lontane ed assurde.
Secondo: l'esodo dai monti. Don Milani si riferisce ad un capitolo del libro "Esperienze Pastorali", uscito nel 1958 dopo una lunga e minuziosa preparazione di anni. Perché i montanari scendono al piano con "baldanzosa sicurezza"? I ragazzi stilarono una graduatoria di motivi in ordine di gravità: proprietà, e cioè mancanza di proprietà della terra e della casa; rendita minore che in piano; acqua; luce; strada; scuola; arretratezza cioè complesso di inferiorità; dottore e farmaci; fidanzamento, cioè mancanza di occasioni, solitudine, matrimonio, "cioè difficoltà a farle venire quassù", scomodo alle botteghe, uffici, ecc.; fatica maggiore che in piano; posta non viene portata; divertimenti.
Secondo don Milani era questa una graduatoria che non corrispondeva a quella "segreta che ognuno aveva in cuore", nella quale il primo posto era in realtà occupato dall'arretratezza, cioè dal complesso di inferiorità. In base a questa analisi, che torna di continuo negli scritti milaniani, il "bene dei poveri", prima della casa e del lavoro, è la cultura.
Terzo: la "vitalità" delle classi oppresse. Essi possiedono "idee nuove", "argomenti", "pensieri lungamente meditati", cioè possiedono una loro cultura, che per esprimersi compiutamente ha solo bisogno di strumenti tecnici: "Chi crede nella vocazione storica dei poveri a diventare classe dirigente... non vorrà offrir loro nessuna cultura, ma solo materiale tecnico (linguistico, lessicale e logico) che occorre per fabbricarsi una cultura nuova che con quell'altra non abbia nulla a che vedere" ("Esperienze Pastorali", pag. 210). Una delle intuizioni più profonde di don Milani è proprio quella di aver scoperta nella classe degli oppressi, "una vocazione storica di classe guida". ("Esperienze Pastorali", pag. 243).
In favore dei subalterni
Il segreto e la novità della scuola di Barbiana consiste nell'aver individuato nello strumento-scuola una delle dinamiche più importanti del passaggio della classe degli operai e dei contadini dallo stato di minorità sociale a quello di "classe guida".
Mi pare -arrivando alla conclusione- che si possa condividere il giudizio che Ingrao ha dato di don Milani sia sul n. 100 di Testimonianze sia in un'intervista pubblicata sul n. 13 della Rocca: "L'interesse della sua figura è di essere stato, a un certo punto della storia italiana, come uno che ha fatto vedere una ferita, che ha colto un punto nodale... La risposta che lui dava alla contraddizione di classe, mentre esaltava al massimo la nozione del sociale, poi non vedeva come questo sociale, nella storia di oggi, per passare ha bisogno di darsi una strumentazione e una dimensione politico-statale. Partiti, sindacati, Stato: tutta questa nozione qui io non la sentivo".
Immigrazione, scuola, servizi sociali elementari, casa, condizione del movimento operaio sono tutti temi esemplari dell'impegno sociale e di classe di don Milani, nato dal di dentro di una singolare e profondissima esperienza religiosa. Il priore di Barbiana coglie, cioè, in uno dei modi più radicali che ci è dato di conoscere, le contraddizioni e i costi umani; sociali e culturali -per non dire religiosi- del cosiddetto "boom" dello sviluppo italiano degli anni '50 e prima metà degli anni '60. E se nella sua analisi e nel suo impegno mancava -come dice Ingrao- la nozione del politico, ciò non altera il senso di novità e di rottura della sua esperienza nel quadro del mondo cattolico della società italiana, soprattutto degli anni '50. Ricordarne la figura nel decennale della morte non ha nulla di commemorativo. Deve diventare per tutti una grande occasione di riflessione sui ritardi della nostra società rispetto all'esperienza singolare del Priore di Barbiana: una riflessione che forse suggerirebbe ai tanti "milaniani" (troppi) di oggi un che di pudore.
LA PROFEZIA POLITICA DI DON MILANI
di Antonino Drago
Rocca, Assisi (Perugia), 1° marzo 1979, pagg. 36-38
Solo ora che il leninismo è in crisi e complessivamente negativa viene valutata la sua esperienza per il movimento di liberazione dei popoli, si può meglio capire Don Milani e la sua scelta della nonviolenza. Essa non appare più una dichiarazione di utopia fuori della storia, ma una precisa indicazione di intervento politico che si sta affermando anche in Europa
A più di dieci anni dalla morte di D. Milani autori diversi hanno pubblicato lettere inedite, della sua Vita, ne hanno tracciato una interpretazione. Ma allo sforzo di sapere il più possibile sulla sua vita non corrisponde spesso un pari approfondimento del significato del suo insegnamento, di ciò che egli ha compiuto e di ciò che voleva essere. Si giunge a volte a parlare per un intero libro della sua vita senza sottolineare la sua battaglia per l'obiezione di coscienza o occultando la sua precisa visione politica. Quando uscì la lettera ai cappellani militari, Longo, attuale presidente del Pci, valutò molto positivamente questo prete non comune, ma lo giudicò un ingenuo politicamente; in quanto non si sarebbe reso conto che per portare avanti quel tipo di battaglie occorreva collegarsi con il movimento operaio organizzato. Cosi la dichiarazione di D. Milani di essere nonviolento e seguace di Gandhi veniva svalutata come affermazione religiosa-utopica, senza importanza storica.
Così infatti è stata valutata la nonviolenza dai marxisti ortodossi che hanno sempre considerato l'Europa come il centro degli avvenimenti mondiali, nonostante che la loro rivoluzione si sia verificata fuori dell'Europa, prima nella "feudale" Russia e poi in vari altri paesi del Terzo Mondo. Per questi marxisti quello che è successo in India "doveva" essere un residuo di una civiltà al tramonto di fronte alla società tecnologicamente progredita. E che un prete isolato italiano si ricollegasse a quella tradizione lontana, "doveva" essere la debolezza intima di una vita altrimenti lucida e rigorosa.
Giustamente la prima raccolta di lettere di D. Milani mise in testa a tutte la ormai famosa lettera a Pipetta, segno inequivocabile di una chiarezza di pensiero anche nei confronti del movimento operaio organizzato in partiti. "Quando tu avrai vinto, io starò all’opposizione".
Molti cattolici hanno preso questo pensiero come espressione di una radicale incapacità di un vero cattolico a impegnarsi durevolmente e integralmente con un programma politico storicamente determinato: atteggiamento residuo di una vecchia concezione attendista e purista che vede la politica come fatto contingente ed esterno alla fede. Secondo tale atteggiamento in politica il cattolico può sempre riservarsi di avere delle "variabili interne" le quali gli impongono scelte inspiegate e ingiustificabili di fronte ai laici, per cui giustamente i laici non possono mai fidarsi completamente di questi cattolici, che subiscono spesso e anche volentieri questa tentazione di invocare il proprio dio quando invece c'è da rispettare un problema di fedeltà concreta agli uomini.
Ma non era questo l'atteggiamento di D. Milani che anzi faceva della fedeltà alle persone vicine a lui un impegno duraturo di fraternità concreta e senza compromessi. D. Milani invece voleva dire a Pipetta che proprio la fedeltà alla povera gente avrebbe comportato necessariamente la divisione tra lui, rimasto fedele agli sfruttati, e Pipetta che apparteneva ad un partito che ancora sa fare solo dei tentativi di gestire lo stato in nome degli sfruttati. Il recente convegno del Manifesto e quello successivo di Firenze sulla dura realtà nei paesi dell'Est sono una conferma di ciò che diceva D. Milani: anche là egli si sarebbe posto dalla parte degli ultimi, incurante delle accuse di utopia che gli sarebbero state rivolte.
Un "cattolico" del nostro tempo
D. Milani appare oggi come una delle pochissime figure di cattolico che ha saputo rispondere ai problemi del suo tempo, in sintonia con i tempi di crescita della storia, eppure in piena obbedienza alla Chiesa. Cioè, egli appare un vero "cattolico", cioè universale, cioè indipendente dal tempo in cui ha vissuto; perché ne ha saputo comprendere appieno le potenzialità e ha saputo inserirsi al meglio delle sue possibilità. Non ebbe seguito, nemmeno tra i preti di Firenze. Ma non tutti e non sempre nascono nei momenti più favorevoli. L'importante è vivere esprimendo una propria coerenza nonostante i cambiamenti tumultuosi della società e i cambiamenti delle proprie condizioni di vita. Questo è il primo segno della nonviolenza, la coerenza di vita; è questo che dà quella forza con la quale il nonviolento vince convincendo. E un altro segno è quello di realizzare anche se per primo e anche senza riconoscimenti pubblici, una vita che in effetti è una via; una via che tutti potrebbero percorrere e sulla quale altri poi costruiranno dei movimenti.
Ma al di là di considerazioni generali, mi sembra che la sua vita acquisti precisione e coerenza rigorosa quando la si confronti con le istituzioni che ci circondano in questa civiltà e con la vita che esse ci propongono. La vita di D. Milani è stata caratterizzata da una serie di risposte (personali e politiche) alle più importanti istituzioni, da quelle religiose a quelle politiche. E queste risposte sono la articolazione nella nostra storia e nella nostra società del discorso politico nonviolento gandhiano: il dare importanza e prevalenza ai rapporti tra le persone e non ai rapporti formali o ai rapporti di potenza anche se c'è una istituzione oppressiva a imporceli.
Le istituzioni sociali ci fanno sognare di vivere una vita enormemente potenziata; con loro crediamo di vedere tutto il mondo, di conoscere qualsiasi cosa, di possedere sempre di più, di godere all'infinito, di vivere una vita perenne. D. Milani invece propone come scopo totale della vita un amore rivolto ad un ristretto gruppo di persone precise; perché solo così si può amare veramente; solo allora si vive una vita universale. L'atto che ha fatto la grandezza di D. Milani è stato l'accettare di andare a Barbiana; accettò di limitare la propria vita in un ambito sociale molto ristretto (300 anime in un paese di montagna senza strada carrabile), al gradino più basso della piramide sociale.
Le istituzioni sociali promettono di espandere la vita degli uomini ma intanto ognuna di esse considera solo una parte della persona (la scuola l'istruzione, la fabbrica, il lavoro, la televisione il tempo libero, ecc.).
D. Milani invece propone e realizza la partecipazione totale alle persone che ama, tanto da fare comunità con esse.
Le risposte alle massime istituzioni
Critica della istituzione Chiesa. Per questa critica era stato mandato a Barbiana: perché aveva detto no alla parrocchia tradizionale, e aveva analizzato in un libro la sua degenerazione (Esperienze pastorali). Il modello dì parrocchia (e quindi di Chiesa) che vuole realizzare a Barbiana è di una Chiesa-lievito che fa prendere coscienza alla gente mediante la educazione popolare. E' la Chiesa che verrà alla luce con il Concilio e che si realizzerà nell’America Latina (e speriamo in tutto il mondo). Con questo D. Milani ha messo la parola "fine" alle scuole private cattoliche rivolte ai figli dei ricchi: ora esse devono solo scomparire e tutti i sacerdoti sensibili che le gestiscono sanno questa verità storica.
Critica della istituzione militare. Con la lettera ai cappellani militari egli esprime il suo rifiuto di uccidere ciecamente e di obbedire ciecamente; quindi non un rifiuto totale e assolutizzato, ma il rifiuto ad una istituzione che vuole una obbedienza assoluta. E' con lui che in Italia la obiezione di coscienza passa da testimonianza e affermazione di principi universali, morali o religiosi a obiezione politica. La lettera ai cappellani militari trova le motivazioni storiche di questa obiezione e si allarga ad una critica politica della società tutta.
Critica della istituzione scolastica. La lettera ad una professoressa ha una affermazione principale (e proprio questo hanno cercato di farci dimenticare con i decreti delegati!): la scuola è un terreno di scontro principale nella lotta tra sfruttati e sfruttatori. Infatti la bocciatura non è tanto una colpa individuale o una ingiustizia dell’insegnante, ma è l’espressione finale di un piano politico di selezione ed emarginazione degli strati popolari dalla coscienza sociale e dalla lingua; quindi dal potere di organizzarsi. Lo strumento di questa politica è la cultura borghese, che deve essere sostituita da una cultura che sia l'espressione della vita concreta del popolo. Con D. Milani la ricerca secolare di una pedagogia popolare ha il suo punto d'approdo: finalmente si dà l'esempio di una educazione che sa riconoscere che la società è piena di conflitti, e che l'educazione consiste essenzialmente nell'imparare a risolvere i conflitti tra le persone e tra le classi: perciò l'educazione è fondamentalmente una serie di scelte di vita personali che nello stesso tempo sono risposte e impegni di lotta nei massimi problemi sociali. E' la nonviolenza che sa legare in maniera precisa le scelte (rifiuti) individuali con le lotte sociali, la vita di fede personale con le lotte politiche di massa.
Critica delle istituzioni politiche verticistiche. Gli sfruttati ora non hanno la lingua per esprimere le loro idee e la loro volontà, i loro rappresentanti si imborghesiscono: ciò rende tutti i partiti uguali nel Partito Italiano Laureati. Invece occorre sviluppare e sostenere le organizzazioni di base collegate direttamente ai bisogni popolari di giustizia: il sindacato (di prima del '69!).
Don Milani e la tradizione politica
Ripensando D. Milani all'interno della tradizione politica nonviolenta, egli sa impersonare tra i primi una vita nonviolenta nella società italiana e nella chiesa italiana; rinnova la critica di Tolstoj sulla scuola, rende il discorso europeo dell'obiezione di coscienza un discorso politico costruttivo, così come voleva Gandhi. Ripensando D. Milani più in generale all'interno del movimento di lotta contro questo tipo di società borghese, egli è una chiara voce a sostegno della autonomia creativa delle masse popolari. Questo all'opposto del leninismo che affidava alle masse solo i compiti stabiliti da un vertice di rivoluzionari di professione.
Per dieci anni D. Milani era stato quasi dimenticato, perché in questi anni era rimasta indiscussa la tradizione leninista dei grossi partiti e le sue idee apparivano ai più, utopiche. Solo ora si capisce che il leninismo è stata una esperienza complessivamente negativa per il movimento di liberazione dei popoli. D. Milani può essere meglio compreso e la sua dichiarazione di essere nonviolento suona non più come utopia fuori della storia, ma come precisa indicazione profetica di una direzione politica che sta crescendo anche in Europa, oltre che nel Terzo Mondo; là dove in questi giorni la nonviolenza sta dimostrando per la seconda volta di poter portare tutto un popolo ad una rivoluzione totale, che sa sopportare sacrifici di sangue enormi, che sa opporsi efficacemente al massimo impero multinazionale mondiale, quello delle sette sorelle petrolifere, sostenute dal governo Usa e sa vincere.
DON MILANI PROFETA "INOPPORTUNO"
di Franco Molinari
La Discussione, Roma, 9 gennaio 1984, pag. 16
Il 1° ottobre 1958, esattamente 27 giorni prima di diventare Papa Giovanni XXIII, il patriarca di Venezia Roncalli scrive a mons. Piazzi vescovo di Bergamo e commenta il libro Esperienze Pastorali fresco di stampa, definendo don Lorenzo Milani "un povero pazzarello uscito dal manicomio" (la missiva è comparsa in: Roncalli. Lettere ai vescovi di Bergamo, Bergamo 1973, p. 176). Già questo dettaglio è un colpo di piccone, che demolisce il mito di Roncalli progressista, contrapposto a Pacelli reazionario.
A soli 25 anni dalla pubblicazione del volume, che allora apparve come una bomba eversiva ed invece fu scavalcato a sinistra dal Concilio, un drappello di specialisti, tutti esponenti della cultura accademica, tenta ora la storicizzazione del personaggio e del suddetto libro, che nel Natale 1958 fu definito inopportuno dal S. Uffizio e ritirato dalla circolazione.
Milani, che aveva il sarcasmo facile del maledetto toscano, sbottò: "Mi hanno fatto il regalo di Gesù Bambino. Dopo tutto sono stati buoni, dichiarandolo non eretico, ma semplicemente inopportuno". Quel che è inopportuno oggi sarà opportuno domani.
Mai profezia fu più azzeccata. Oggi Esperienze rappresenta un classico della tecnica pastorale, come sono entrati nel circolo della cattolicità italiana i nuclei essenziali di don Milani: l'attenzione ai lontani, l'esigenza della distinzione tra il piano religioso e quello politico, la prioritaria scelta religiosa, la polemica discussione sui "bar di Gesù Cristo e juke-boxe della Trinità", la necessità di restituire ai poveri la parola e di scolarizzare il proletariato.
Ma perché si è fatto tanto chiasso sulla scuola popolare di S. Donato e di Barbiana? Dopo tutto l'insegnamento per i poveri, gestito dai sacerdoti, è una tradizione, che risale al Medioevo. Sia pure nel contesto e coi limiti dell'epoca, hanno sempre funzionato le strutture scolastiche presso i monasteri, le cattedrali e talora presso le parrocchie. Si legga a tale riguardo il canone 18 del terzo Concilio Lateranese (1179), il quale suona letteralmente così: "Affinché agli indigenti, che non possono essere sostenuti dalle risorse familiari, non manchi la possibilità di leggere e di progredire, ogni cattedrale deve provvedere ad un maestro, il quale insegni gratuitamente agli scolari poveri e ai chierici. Lo stesso dovere di alfabetizzazione spetta alle altre Chiese ed ai monasteri, cui è stato attribuito tale compito" (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 1974, p. 220).
La vastissima fama di don Lorenzo Milani non è spiegabile dunque con la "invenzione" della scuola popolare, ma con mille altri fattori in parte riconducibili all'eccezionale statura dell'autentico profeta, in parte al contesto storico, in parte alle strumentalizzazioni politiche di chi l'ha visto come "il prete rosso" o il contestatore della Chiesa o il precursore del ’68. Tutte queste letture ideologiche si sciolgono come neve al sole, se si accostano i suoi testi. Egli scrive che "il comunismo è una dottrina senza amore. Ci vuole un bel coraggio a difendere la Russia".
A proposito dell’istituzione ecclesiale, che egli scherzosamente chiamava "la ditta di Dio" e alla quale era legato con vincoli solidissimi, scattò un giorno contro i polemisti fasulli dell'Espresso: "Se mia madre è brutta me ne frega; è sempre mia madre. Se uscissi dalla Madre Chiesa, da chi andrei a farmi perdonare i peccati, da quelli dell'Espresso?"
Lapidato in vita per l'incomprensione di una parte del clero (ed anche per l'asprezza del suo temperamentaccio troppo generoso nel distribuire la patente di "bischero" a chi dissentiva da lui), è stato idealizzato dopo la morte.
Sbolliti gli opposti estremismi della stroncatura spietata e dell’apologia encomiastica, ora finalmente esce una raccolta di saggi, che sono poi le relazioni tenute a Milano nell’Università Cattolica, per ricordare in chiave scientifica i 25 anni di Esperienze Pastorali (AA. VV. Don Lorenzo Milani tra Chiesa, cultura e scuola, ed. Vita e Pensiero, pp. 214, lire 14.000). Gli autori sono tutti di matrice cattolica: Scoppola, Riccardi, Bocchini Camaiani, Battelli, Calati, Acerbi, Caimi, Pazzaglia, card. Martini.
Chi dice storia dice divenire. Finora le intuizioni del "profeta" di Barbiana erano state considerate un blocco unitario, quasi che fossero nate tutte adulte come Minerva dal cervello di Giove.
La genesi di Milani riguarda anzitutto l’evoluzione progressiva del suo pensiero.
Con filologico puntiglio Antonio Acerbi e Luciano Pazzaglia, che sono anche gli organizzatori del convegno, hanno esplorato il regno delle madri, individuando gli influssi prevalenti della scuola francese: da Godin alla rivista Esprit, da Action Populaire al gesuita Desqueyrat, il quale un decennio prima di don Milani aveva chiarito il nesso tra i valori e la lingua, tra la soppressione dei valori e la degradazione del linguaggio.
Il divenire di Milani è legato anche al contesto politico-sociale dell'Italia, che passa dalla stagione del centrismo degasperiano alle grandi delusioni del centrosinistra, il quale è abortito sia perché arrivato in ritardo sia perché i socialisti erano divisi all’interno dalla controversia degli equilibri più avanzati e troppo sensibili al virus del clientelismo, sia perché le sinistre al potere hanno scaricato sul governo i colossali debiti degli enti locali, contribuendo al dissesto dello Stato.
In tale cornice don Milani sposa la tesi della "Nuova Cristianità", che doveva costruire nella scia della "Rerum Novarum" lo Stato sociale a favore degli ultimi. Successivamente però prende le distanze dal partito ad ispirazione cristiana perché come sacerdote giudica una tragedia che i cattolici italiani dispongano di tutte le leve del potere (dal Parlamento alla radio) e siano considerati nemici dei poveri per il loro troppo cauto riformismo.
Il discorso di Milani si mantiene sempre a livello religioso. Un altro apporto fondamentale quasi una filigrana sotterranea di tutti gli interventi è la sottolineatura del prete, particolarmente marcata nelle relazioni di B. Calati ("Bibbia e spiritualità in don Milani"), L. Pazzaglia ("Don Milani uomo di scuola"), Michele Gesualdi ("Il catechismo di don Milani").
Il Gesualdi, che è stato uno degli alunni prediletti ed ha sposato Carla Carotti altra allieva di Barbiana, con schiettezza e onestà denuncia "il rischio di costruire un’immagine idealizzata del nostro Priore, e quindi non la più completa, mentre ogni uomo in quanto tale, ha anche dei limiti, che lo caratterizzano". Del resto don Milani stesso, che pure possedeva un autoritarismo terribile e della sua pedagogia durissima ha fornito una giustificazione estremamente valida (quella dell'amore e della competenza), era felice di sentire dai suoi "figlioli" le giuste critiche, quand’erano segno di autonomia vera e di autentiche conquiste. Scrive: "Che splendida cosa per un padre prendere legnate dal figlio, il quale dimostra di non aver più bisogno della balia".
Quindi non cammina affatto verso l’itinerario di Barbiana chi giudica don Milani un tabù intoccabile e trasforma i suoi orientamenti in dogmi. Vediamo allora i risvolti problematici e discutibili di uno dei più grandi profeti del nostro tempo, la cui peculiarità più meritoria è d’essersi sempre messo con impietosa coerenza dalla parte dell’ultimo (come suona il titolo della miglior biografia, scritta da Neera Fallaci, sorella meno nota, ma più attendibile della Oriana). Il senatore Scoppola scorge una matrice illuministica nell’enfatica importanza, che don Lorenzo annette alla parola.
L’ipotesi suggestiva può avere un certo grado di verità famigliare (suo nonno sapeva 19 lingue), ma va agganciata al terreno biblico, in quanto le parole umane per don Lorenzo costituivano non solo l’arma di difesa contro i soprusi degli sfruttatori ed un ponte di fraternità umana, ma anche la via verso il Verbo di Dio fatto carne. C’è da chiedersi però se nella crociata intrapresa per dare la parola (e la coscienza critica) agli emarginati non si nasconda l’ingenuità di Socrate e di Leibniz, i quali identificavano la virtù con l’istruzione.
Il sacerdote fiorentino si sottrae a tale pericolo grazie al suo denso evangelismo, che lo induce a martellare la testa dei suoi ragazzi con lo slogan programmatico "Il fine dell’uomo è di impegnarsi per il prossimo" (anche la scelta della professione deve obbedire a tale ottica). La litania delle carenze può allungarsi, non certo per demolire il personaggio, ma per conoscerlo più fedelmente nella sua varia umanità e renderlo anche più amabile, più vicino a ciascuno di noi.
La mancanza di una didattica (ha scritto altrove Cesare Scurati che la didattica di don Milani è l’antididattica), la totale incomprensione per le altre discipline che non fossero l’insegnamento della lingua (matematica, scienze, storia ecc.), l’iniziale paternalismo del "signorino" colto, che però con il tempo si va modificando. Sono alcune negatività di chi non si riteneva certo infallibile e diceva a proposito di Esperienze Pastorali al vescovo mons. D’Avack, autore della prefazione: "lo non mi pento di aver pubblicato il libro e spero che ella non si penta di averlo commentato. Questo non significa che se potessi tornare indietro non vorrei mutare alcune cose".
Una cosa non ha cambiato: la fedeltà alla Chiesa. Si potrà dissentire dal profeta di Barbiana su molti punti, ma non si può discutere circa la sua obbedienza alla Chiesa.
Sotto tale profilo sarebbe auspicabile che fossero più serenamente scandagliati i suoi rapporti con 1’autorità ecclesiastica, che il Milani trattava sgarbatamente, ma senza mai deragliare dai binari della docilità sacerdotale. Anche a lui si attaglia la sigla programmatica di "obbedientissimo in Cristo", che L. Bedeschi ha applicato a Mazzolari. Di questi profeti obbedienti ha bisogno il mondo.
Peccato che siano pochi e sempre più rari.
Non tutte le critiche, che gli esperti muovono, mi sembrano fondate. Rimproverare ad Esperienze Pastorali "la strana assenza del problema della donna" (ivi p. 204) significa dimenticare altre fonti. Già la Fallaci nella citata biografia ricorda la rivoluzionaria decisione di mandare in Inghilterra per 1’approfondimento della lingua la Carla Carotti. Egli commentava: "Così la prima bambina barbianese di 15 anni avrà finalmente la parità coi maschi. Va due mesi in una famiglia in Inghilterra". L’ulteriore esplorazione di inediti potrà aggiungere qualche pennellata al quadro, come il discorso registrato e mai utilizzato sulla "dignità della donna", in cui don Milani con il suo stile veemente rimprovera le mamme di portare le ragazze al ballo come "vitelle al mercato".
Un certo rigorismo personale verso la donna, che oggi potrebbe parere puritano, va inquadrato nel suo tempo e, soprattutto, nella sua dedizione totale a Cristo. Osserva il suo amico, don Renzo Rossi: "Nella sua severità interiore assoluta, don Lorenzo aveva paura della donna, quasi che una maggiore familiarità togliesse qualcosa all’offerta fatta al Signore".
In tale serietà giocava forse la sua eredità ebraica? Anche le sue radici israelitiche non sono state ancora messe in luce sufficiente. Con molta lucidità il benedettino Calati ha centrato il bersaglio, chiosando che don Milani da buon giudeo "stava sempre davanti a Jalvé, sempre".
LA POSIZIONE POLITICA DI DON LORENZO MILANI (1947-1967)
di Antonino Bencivinni
Scuola e Città, Roma, n° 2, 29 febbraio 1988, pagg. 52-57
A vent’anni dalla morte di don Lorenzo Milani, appare evidente il contrasto tra l’esaltazione che si fece di lui e della sua opera negli anni Sessanta e Settanta ed il quasi oblio degli anni Ottanta.
Soprattutto negli anni Settanta cattolici, comunisti, extraparlamentari di sinistra facevano a gara nell'individuare il "don Milani" che più faceva comodo per farne uno dei "loro" ed utilizzarlo ai fini della loro battaglia politica quotidiana. Alcune citazioni tratte da "Civiltà Cattolica", da "Rinascita" e da "Scuola documenti" potranno dare un'idea dei numerosi tentativi di cattura ideologica cui fu sottoposta l'attività dell'autore di Esperienze pastorali e del "regista" di Lettera a una professoressa.
"Esperienze pastorali confonde le menti, esaspera gli spiriti, scalfisce la fiducia nella Chiesa e suggerisce propositi sconsigliati... Il cuore si restringe al pensiero che un sacerdote scriva con stile tanto risentito ed incontrollato" ("Civiltà Cattolica" 1958).
"C'è nella figura e nell'opera di don Milani una carica umana e cristiana che affascina... E’ stato un uomo che riesce oggi a scuotere salutarmente il lettore e a farlo riflettere su un certo tipo di cristianesimo e su certi modi di essere cristiano" ("Civiltà Cattolica", 1970).
"Il valore politico della sua lotta è la guerra contro la cultura borghese, la scelta dell'anticultura, la scelta degli sfruttati come compagni di strada, la necessità di cambiare, l'analisi spietata della scuola e del suo classismo" ("Scuola documenti", 1975).
"Sarebbe proprio assurdo cercar di deformare questo sacerdote, farne "uno dei nostri". Non è marxista, si capisce. Non gli interessa che i "poveri" non siano più "poveri", gli interessa che si salvino" ("Rinascita", 1970).
Queste diverse utilizzazioni degli scritti e dell'opera di don Milani sono state rese possibili soprattutto dalla mancanza di studi che, più che ad esaltare la "correttezza" di certe prese di posizione del Priore di Barbiana, mirassero a dare una spiegazione coerente delle reali o, più spesso presunte, contraddizioni individuate nella sua opera. Il mio vuole essere un contributo in direzione della comprensione della posizione politica di don Milani, così come si evince dai suoi scritti.
1.1. La posizione politica negli anni Cinquanta
Nella fase che approssimativamente va dall'inizio della sua attività pastorale alla fine degli anni Cinquanta, schematicamente, tre sono i punti da mettere in evidenza nella posizione politica di don Milani:
1.1.1 Anticomunismo
Negli anni Cinquanta l'anticomunismo di don Lorenzo è deciso e profondo. Di esso si trova ampia testimonianza in Esperienze pastorali dove, ad esempio, si legge:
"La dottrina del comunismo non val nulla. Una dottrina senza amore. Una dottrina che non è degna di un cuore giovane. Avesse almeno realizzazioni avvincenti. Ma nulla. Uomini insignificanti, un giornale infelice, una Russia che a difenderla ci vuol coraggio. E io dovrei farmi battere da così poco?,, (EP p. 458).
E così ancora nella Lettera a un predicatore che costituisce la prima appendice a Esperienze pastorali, si può leggere che don Milani considera un successo della sua scuola il fatto che un suo allievo, Giordano, figlio di comunisti e lui stesso comunista, dopo sei anni di scuola con don Lorenzo non rinnova più la tessera del partito comunista.
Scrive don Milani rivolto ad un predicatore e volendo sottolineare la maggiore efficacia contro il comunismo della sua azione pastorale fondata soprattutto sulla scuola, rispetto alle prediche dichiaratamente anticomuniste pronunciate da certi predicatori in parrocchie operaie:
"Il mio Giordano non l'ho forse portato là dove la Chiesa e lei volevate portarlo? Ho registrato solo un ritardo di sei anni. Son troppi?" (EP p. 274).
In altri termini don Milani e il predicatore anticomunista hanno il medesimo obiettivo -strappare la gente al comunismo- ma non gli stessi metodi. Scrive don Lorenzo nella Lettera a un predicatore:
"Lei dai pulpito tuonava: "quei messeri". Quei messeri per lei parevano mostri con le zanne. Per Giordano invece quei messeri erano il sorriso patito e tanto caro del babbo, erano i musi neri dei compagni di officina, erano le loro parole di eguaglianza, casa per tutti, lavoro per tutti, cose belle e buone mischiate a tanto male, ma sempre belle e buone" (EP p. 273).
Proprio perché è convinto della delicatezza del problema-comunismo soprattutto nelle parrocchie operaie come la sua, don Milani riserva solo a sé la trattazione di tale problema nella sua scuola. Scrive a Mario Gozzini nel 1953:
"Solo il comunismo me lo riserbo a me solo e non perché io sia migliore di lei o abbia un pensiero più alto e più bello, ma solo perché son di casa e conosco il luogo e il momento e il muso dei ragazzi,, (L p. 27).
L’anticomunismo di don Milani, che è in fondo l’anticomunismo dei tempi, si accompagna anche alla paura di una, a suo avviso imminente, violenta presa del potere da parte dei diseredati trascinati dalle loro sofferenze e strumentalizzati dal partito comunista, paura che è evidentissima agli inizi degli anni Cinquanta e che poi si attenua fino a scomparire. Così ad esempio:
"Se voi non farete presto a fare lo faranno quegli altri, ma di sangue e non d'inchiostro" (Milani 1950, p. 174).
"Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione" (L p. 12).
"Ma domani, quando i contadini impugneranno il forcone e sommergeranno nel sangue insieme a tanto male anche grandi valori di bene accumulati dalle famiglie universitarie nelle loro menti e nelle loro specializzazioni, ricordati quel giorno di non fare ingiustizie nella valutazione storica di quegli avvenimenti" (L. p. 62-63).
La paura del comunismo non impedisce a don Milani di individuarvi un "fondo di verità":
"Il comunismo porta in sé i fondamentali errori ideologici che tutti sappiamo, ma porta, come ogni altra cosa, un fondo di verità e di generosità, per esempio la preoccupazione del prossimo l'amore per l'oppresso ecc." (EP p. 240).
Ed è sul terreno della lotta per la giustizia sociale che egli, in qualità di prete, ritiene di doversi impegnare anche per togliere al comunismo il suo punto di forza.
1.2 Critica alle ingiustizie sociali.
Disoccupazione dilagante, mancanza di alloggi popolari, sfruttamento del lavoro minorile, assoluto disprezzo da parte dei "padroni" delle leggi sociali vigenti (il tutto con la protezione, neppure tanto velata, delle "Autorità"), sono tra le ingiustizie sociali denunciate da don Milani.
Una buona esemplificazione di queste denunce è la Lettera a don Piero che è la seconda appendice a Esperienze pastorali e tra le poche cose del libro che considererà valide alcuni anni dopo la sua pubblicazione. Scrive don Milani:
"Si usa dire che nelle fabbriche grandi le infrazioni alle leggi sociali non ci siano. Non è vero. Dal Baffi si lavora con contratto a termine. Ognuno firma per due mesi e rinnova la scadenza per altri dieci e così via. Non si può. Ma al Baffi non gliene importa. Si dice poi che nelle fabbriche grandi son tutti assicurati. Ma non è vero neanche questo. Dal Baffi so di moltissimi che non lo sono" (EP p. 448).
Il tragico, scrive don Lorenzo, è che "la società sia organizzata in modo da proteggerlo" (EP p. 449). Ne è la prova, ad esempio, il fatto che, in seguito ad una segnalazione alla magistratura ben circostanziata, seguita da un'ispezione dell'Ispettorato del Lavoro, con esito positivo (tanti ragazzi furono trovati a lavorare di notte), fu questa la risposta del magistrato a don Milani:
"Ho davanti il rapporto dell'Ispettorato: la segnalazione di irregolarità al lanificio Baffi era destituita d’ogni fondamento. In un'accurata ispezione non abbiamo potuto riscontrare la più piccola infrazione" (EP pp. 449-450).
Continua don Milani:
"Andare in fondo? Infierire contro due poveri subalterni? Forse hanno accettato una bustarella, forse hanno ricevuto dall'alto l'ordine di non sdegnare troppo gli industriali perché non chiudano" (FP p. 450).
E conclude:
"Il potere politico è in mano dei ricchi. Il potere della legge si infrange di fronte al potere economico. Le leve sono ferme in quelle mani" (EP p. 450).
Nella Lettera a don Piero, come si è visto, sono esemplificate alcune delle gravi ingiustizie sociali con cui inevitabilmente devono fare i conti i preti delle parrocchie operaie come quella di S. Donato di Calenzano. Di fronte a queste ingiustizie, don Lorenzo, come prete, potrebbe ricordare ai poveri la prima beatitudine ("Beati i poveri di spirito perché di loro sarà il Regno dei Cieli!"). Però in una società dominata da un partito cattolico al cui successo elettorale hanno contribuito enormemente preti, vescovi e, in generale, gerarchia ecclesiastica, don Milani si rende conto che ricordare allo sfruttato la prima beatitudine "suonerebbe come un orribile scherno" (EP p. 459). Un prete che si comportasse così, allontanerebbe irrimediabilmente i poveri dalla Chiesa. Egli, dunque, se vuole veramente evangelizzare, secondo don Lorenzo, non ha scelte per quanto riguarda l'azione pastorale: non può non criticare le ingiustizie e il governo (e quindi il partito cattolico al potere) sforzandosi di distinguere le responsabilità del governo dai "purissimi principii del Vangelo e delle Encicliche sociali" (LM p. 83).
1.3 Appoggio politico alla DC e valutazione positiva della CISL.
Nonostante il riconoscimento delle gravi ingiustizie sociali e delle responsabilità del partito di maggioranza al governo, don Lorenzo accoglie l'indicazione della gerarchia di votare e far votare per la Democrazia Cristiana, ma nel tempo l'appoggio alla DC sarà sempre più critico.
Così nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948, l'appoggio è totale. Scrive don Milani:
"Poi venne il 18 aprile. il prete aprì gli occhi sul mondo e vide profilarsi vicina la minaccia dei nemici di Dio. Allora gridò forte come la mamma in difesa dei suoi pulcini, se li chiamò intorno, li coprì colle sue ali. Anche il ricco ebbe paura, e aiutò il prete a salvare i suoi pulcini dai nemici di Dio. Così il grande male fu scongiurato e ognuno poté riprendere a sognare cose belle, vittorie sugli altri mali. Ma fra tutti i sogni il più bello fu quello di Fanfani" (Milani 1950, p. 171).
Nelle elezioni successive don Milani comincia a fare delle distinzioni e ad appoggiare nella DC la componente più sensibile alle istanze sociali; il motivo lo esplicita chiaramente in una lettera del 1953 al Cardinale Arcivescovo a spiegazione del suo comportamento nelle elezioni del 1951:
"Mi son... convinto del grave stato di disagio in cui vive il mio popolo, delle ingiustizie sociali delle quali è vittima e della profondità del rancore che nutriva verso la classe dirigente, il governo e il clero. Ho allora sentito quanto questo rancore fosse insormontabile ostacolo alla sua evangelizzazione e ho perciò deciso di dedicarmi a una precisa distinzione di responsabilità. Scindere cioè con esattezza a costo d'esser crudeli le responsabilità (fittizie o reali che siano) del governo dai purissimi principii del Vangelo e delle Encicliche sociali " (LM pp. 82-83).
Se il prete non fa questa necessaria distinzione di responsabilità, criticando il governo e la DC quando è necessario, il pericolo che i poveri corrono, secondo don Lorenzo, è gravissimo,
"c’è qualcuno che per un po' di lavoro, un po’ di casa, un po’ d’aumento, un po’ di giustizia umana, per queste quattro stupide piccole cose umane che io non ho saputo riconoscergli a tempo, gli ruberà la fede". (EP p. 458).
Questo "qualcuno" ovviamente è il militante comunista.
Don Milani, volendo ovviamente dimostrarne la validità contro il comunismo, scrive che con i metodi da lui seguiti, ad esempio "obbligo di votare solo per i candidati democristiani e di cancellare gli alleati, anche a costo di indebolire la lista" e anche "continua denigrazione del Governo e della DC" (EP p 256), i comunisti a S. Donato, tra il 1946 e il 1951, perdono complessivamente il 23,3% dei voti, a differenza delle altre parrocchie (i cui parroci seguono ben altri metodi) in cui perdono negli stessi anni solo il 10,3% dei voti; d'altra parte la DC negli stessi anni a S. Donato registra un aumento del 43% di voti, nelle altre parrocchie invece ottiene un aumento soltanto del 16,7% (EP p. 257).
Il ragionamento di don Lorenzo, che svolge - come si ricorderà - la sua attività pastorale in una parrocchia operaia come quella di S. Donato, è dunque molto chiaro: il prete deve criticare gli sbagli del governo e della DC se vuole essere creduto dai poveri quando critica i comunisti; inoltre deve dare l'indicazione di votare per la DC, suggerendo di assegnare la preferenza ai candidati più sensibili alle istanze sociali.
Questa valutazione positiva della DC, o meglio delle "ali socialmente più sensibili della DC" (EP p. 261), si accompagna ad una valutazione molto positiva della CISL, il sindacato costituito nel 1948 dai cattolici che, sotto la pressione della DC, della Chiesa e dei sindacati americani, provocarono la rottura dell'unità sindacale con la CGIL.
Ad esempio, nel 1955 don Milani chiaramente con una punta di soddisfazione, così scrive dei suoi allievi in una lettera alla mamma:
"Maresco ier sera è rimasto quassù per farsi dare qualche consiglio per preparare il suo discorso al congresso provinciale della CISL al quale è stato delegato... è stato eletto segretario anche della CISL di Calenzano oltre che dei metalmeccanici di Prato e così è successo al Rosso eletto segretario dei contadini della CISL di Calenzano. In conclusione i ragazzi della scuola hanno ormai in mano la segreteria della DC, del PSI e due segreterie della CISL. E’ buffo a pensarci e dimostra che ormai i cattolici erano con me in tutto il comune. Quando arrivai, alla DC c'era un borghese e era il presidente dell'Azione cattolica di Calenzano: ora è operaio, sandonatese e mio. Alla CISL c'era un borghese e era il presidente dei giovani dell'AC di Calenzano. Ora è operaio e sandonatese e mio. E via di seguito" (LM pp. 104-105, corsivo mio).
La valutazione positiva della CISL, organizzazione collaterale alla Democrazia Cristiana nata in funzione anticomunista, ha in questo periodo un indubbio significato politico.
In conclusione il don Milani degli anni Cinquanta è, come si è visto, chiaramente anticomunista, per una legislazione sociale avanzata e pronto ad accogliere l'indicazione della gerarchia ecclesiastica di far votare per la DC, anche se dà indicazione di votare, all'interno di essa, per i sindacalisti o per i rappresentanti della componente più sensibile ai problemi sociali.
La particolare sensibilità ai problemi sociali, la ricerca continua di un collegamento tra dottrina cristiana e dottrina sociale, accanto ad un certo rigorismo morale, sono elementi che don Lorenzo ha in comune con la sinistra democristiana guidata da Dossetti e, dopo le dimissioni di questo, da La Pira.
Don Milani non solo conosce La Pira e i lapiriani, ma ne apprezza anche il lavoro politico. In una lettera del 1955 al suo amico magistrato, Meucci, lapiriano, che gli aveva chiesto se voleva collaborare per dar vita ad un settimanale di ispirazione cristiana - "Le 12" - che non fu poi realizzato, così scrive:
"Vorrei sapere da te (e poi da tanto desidero saperlo anche da Dossetti e da Benedetto) che serve sprecare intelligenze belle e culture e cuori d'oro come avete voi a profusione per rivolgersi poi a intellettuali... Vi ammiro e vi amo e prego per voi che vi riescano tutte, ma quando penso alla vostra ricchezza intellettuale e alla povertà intellettuale di altri non posso fare a meno di pensare che, a scrivere un giornale per i ricchi, vi sprecate volgarmente. (L pp. 36-37, corsivo mio).
Don Lorenzo negli anni Sessanta modifica gradatamente la sua posizione politica, in questo certamente influenzato dai numerosi avvenimenti nazionali e internazionali di quegli anni: l’Unione Sovietica di Krusciov, gli Stati Uniti di John Kennedy avviarono a grandi tappe il processo di distensione che ovviamente ebbe ripercussioni anche in Italia in cui si attenuò l'anticomunismo degli anni precedenti. Il PCI, da parte sua, acquistava progressivamente una maggiore autonomia da Mosca e una maggiore democrazia al suo interno. Lo stesso don Milani se ne rende conto e così nel 1964 in una lettera pubblica, scrive:
"Chiediamo all'Arcivescovo che risparmi ai nostri popoli lo scandalo di un assolutismo abbandonato anche ormai dal Papa e perfino dai comunisti" (L p. 188).
Dopo anni di dibattito in Italia sulla cosiddetta "apertura a sinistra", i socialisti entrarono a far parte della maggioranza governativa e poi del governo. In questi anni, attenuatisi i gravissimi problemi del dopoguerra, in Italia si registrò una notevole ripresa economica e addirittura negli anni a cavallo del 1960 si parlò di "miracolo economico". A tutto questo si deve aggiungere il profondo rinnovamento della Chiesa sotto il pontificato di Giovanni XXIII che trovò soprattutto manifesta espressione nelle encicliche papali Mater et magistra (1961) e Pacem in terris (1963) che suggerivano la necessità di trovare un modus vivendi tra le diverse dottrine e di assecondare il processo di distensione in atto tra Stati Uniti ed Unione Sovietica.
Schematicamente tre sono i punti da mettere in evidenza nella posizione politica di don Milani rispetto al decennio precedente:
2.1 Attenuazione dell'anticomunismo
Il rinnovamento della Chiesa operato da papa Giovanni è accolto con entusiasmo da don Lorenzo che già aveva subito i rigori della Chiesa, dato che nel 1954 era stato trasferito a Barbiana e nel 1958 Esperienze pastorali, perché "inopportuno", era stato tolto dalla circolazione con decreto del Sant'Uffizio.
In una lettera Inviata alla mamma nell'aprile del 1963 assieme a questo ritaglio della Enciclica Pacem In terris ( "Non si dovrà confondere l'errore con l'errante. Non si possono identificare le false dottrine con i movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche che sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto o traggono tuttora ispirazione" ) così scrive don Milani:
"Non ho ancora letto Il testo integrale dell'Enciclica perché non è arrivato, ma è evidente che i cattolici siamo noi che abbiamo amato i comunisti e i lontani in genere e non quelli che li hanno combattuti. Siccome l’unica cosa che potevano rimproverarmi è di essere allora in anticipo di 10 anni sui tempi, ora che sono un superato perfino dalla maggioranza dei Padri Conciliari voglio segni di onore e non dispettini" (LM p. 157).
Don Lorenzo progressivamente riduce in notevole misura il suo anticomunismo. In questo periodo in cui si sente "sorpassato" dal papa, considera superate gran parte delle cose scritte su Esperienze pastorali. Nel 1965 ad un professore che gli aveva chiesto il libro, così risponde:
"Il mio libro fece molto rumore quando uscì nel 1958. Poi è stato sorpassato a sinistra da un Papa! Quale umiliazione per un " profeta"! Lo considero perciò superatissimo. Resta come un documento per chi fosse curioso della storia della politica pastorale. Ci sono alcuni capitoli che forse sono importanti, per es. quello sulla ricreazione e le due lettere aperte che sono in appendice" (L p. 193).
Ed ancora:
"al giorno d’oggi il mio libro fa ridere me, e fa ridere anche la madre superiora delle orsoline: insomma, oggi il mio libro lo leggono i conventi molto arretrati e le suore come lettera spirituale" (SCI 1965, p. 346);
e nel 1966 lo considera non più che "un curioso documento d'archivio" (L p. 236).
Anche in questo periodo, tuttavia, don Lorenzo si dimostra molto attento ad impedire eventuali strumentalizzazioni della sua azione pastorale da parte dei comunisti a cui, peraltro, non risparmia critiche. Ad esempio, così scrive alla mamma nel 1965 quando si faceva un gran chiasso sulla sua lettera aperta ai cappellani militari a proposito dell'obiezione di coscienza:
"Domani sera grande cerimonia di solidarietà a Vicchio. Spero di riuscire a portare molti preti, ma non sarà facile. Sarebbe un sistema semplicissimo per smontare la speculazione comunista" (LM p. 170).
E ancora nel 1965, cioè due anni prima della morte, nella famosa Lettera ai giudici, scritta in sua difesa in un processo che lo vedeva imputato di apologia di reato accanto a Luca Pavolini, allora direttore del settimanale comunista "Rinascita", reo di avere fatto pubblicare interamente la lettera di don Milani sull'obiezione di coscienza scritta ad un gruppo di ex cappellani militari, si può leggere questa precisazione abbastanza significativa:
"Io avevo diffuso per conto mio la lettera incriminata fin dal 23 febbraio. Solo successivamente (6 marzo) l'ha ripubblicata "Rinascita" e poi altri giornali. E’ dunque per motivi procedurali cioè del tutto casuali ch'io trovo incriminata con me una rivista comunista. Non ci troverei nulla da ridire se si trattasse d'altri argomenti. Ma essa non meritava l'onore di essere fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la non-violenza" (L p. 211).
2.2. Scomparsa della valutazione positiva della DC e progressivo avvicinamento ai partiti di sinistra.
Contemporaneamente al progressivo attenuarsi del suo anticomunismo, si riduce fino a scomparire la valutazione positiva che aveva dato della DC, sia pure nelle sue componenti socialmente più sensibili, negli anni Cinquanta.
In questi anni don Milani progressivamente si convince che i poveri possono ottenere giustizia solo col potenziamento dei partiti di sinistra. Già nel 1961 in una lettera a Corrado Bacci, scrive:
"I compagni socialisti saranno graditissimi quassù e al più presto. Sia che si interessino del galateo, sia che vogliano solo parlare ai ragazzi" (L p. 146).
E nel 1966 ancora più chiaramente il priore di Barbiana scrive:
"Nei partiti di sinistra bisogna militare solo perché è un dovere, ma le persone istruite non ci devono stare. Li hanno appestati" (L p. 237).
Quella speranza posta in un miglioramento della DC, dopo tanti anni di deprimente governo democristiano, viene a cadere in favore dei partiti di sinistra, il cui potenziamento avrebbe potuto assicurare giustizia e un mutamento sociale; ma anche qui con riserva: la critica agli intellettuali, secondo lui, appestatori dei partiti. Scrive in Lettera a una professoressa:
"In parlamento bisogna andarci noi. I bianchi non faranno mai le leggi che occorrono per i negri" (LP p. 92).
Purtroppo, scrive don Milani, i più importanti posti di responsabilità sono saldamente in mano a laureati (che, secondo il Priore di Barbiana, sono tutti borghesi), così le segreterie dei partiti (LP p. 75), i seggi in Parlamento (LP p. 76) ecc.; occorre invece - se si vuole che si facciano leggi per i "negri" - che quei posti siano occupati dai "poveri" a cui sia stata data l'istruzione. Compito del maestro diventa dunque quello di tentare
"di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere. Quando possederemo tutti la parola, gli arrivisti seguitino pure i loro studi. Vadano all'università, arraffino diplomi, facciano quattrini, assicurino gli specialisti che occorrono. Basta che non chiedano una fetta più grande di potere come han fatto finora". (LP p. 96).
Il cambiamento, progressivo e democratico, auspicato da don Milani, deve essere attuato con gli strumenti fondamentali che ci offre la Costituzione (che costituisce per il Priore di Barbiana un costante punto di riferimento dall’inizio della sua attività pastorale fino a Lettera a una professoressa uscita un mese prima della sua morte): lo sciopero e il voto.
Si legge nella Lettera ai giudici:
"In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è di obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero" (L p. 215).
Quando Lettera a una professoressa uscì, suscitò molto scalpore e divenne abbastanza presto un punto di riferimento importante nella contestazione studentesca del ’68 che, nelle frange estreme, arrivò a prospettare la distruzione della scuola, in quanto scuola di classe. In realtà Lettera a una professoressa voleva essere ben altro, come spiega lo stesso don Lorenzo in una lettera ad un suo allievo nel 1966:
"Stiamo lavorando a una importante lettera aperta alla professoressa che bocciò il Biondo e Enrico l'anno scorso. Le tre bocciature di quest'anno mi hanno rinfocolata la rabbia e penso che verrà fuori un capolavoro. Sarà un canto di fede nella scuola e il manifesto del sindacato genitori di cui te e Michele sarete un giorno l'anima" (L p. 260, corsivo mio).
In conclusione don Milani, indipendentemente dalle strumentalizzazioni ed utilizzazioni più o meno interessate del suo pensiero e della sua opera, appare, come si evince chiaramente dai testi citati, un sincero difensore del sistema democratico che crede nella possibilità di profonde riforme a partire da quella della scuola, di cui conosce molto chiaramente i limiti (barbara selezione di classe, programmi anacronistici ed inadeguati, docenti impreparati, pratiche educative assurde, strutture arretrate, ecc.), e che vede solo nel potenziamento dei partiti di sinistra (non solo elettorale, ma attraverso la immissione di nuovi quadri, costituiti e controllati dalla massa dei "poveri" ai quali è stata data l'istruzione), la possibilità di una reale trasformazione democratica della società.
Riferimenti bibliografici