Capitolo VI°
I decennali e le commemorazioni
Tra l’incredibile messe di articoli variamente commemorativi, ne vorremmo segnalare alcuni tra quelli che ci sembrano offrire maggiori spunti di interesse.
Alcuni scritti, in genere di parte cattolica (e talvolta dell’ala più conservatrice di tale schieramento), si soffermano ed insistono soprattutto sul tema dell’obbedienza: quella alla gerarchia ecclesiastica. Un’obbedienza sicuramente reale, da parte di don Lorenzo, ma che egli stesso più volte motivò, e spiegò trattarsi di fedeltà ai sacramenti, alla sua volontà di appartenenza alla Chiesa di Roma, alla sua scelta di fede, insomma: non certo di concordanza con le parole e gli atti della gerarchia sul terreno politico-sociale.
Altri affrontano, da diverse angolazioni, il problema di Barbiana e della pedagogia milaniana.
Don Reginaldo Santilli, in un articolo che il quotidiano cattolico Avvenire pubblica nel maggio del ’77, annotato che per Milani "non esisteva la destra e la sinistra, ma solo la povera gente", ci dice che "egli non era un ribelle e molto meno un rivoluzionario", bensì un "esempio di obbedienza".
Sul quotidiano di Firenze, La Nazione, Pier Francesco Listri scrive, nel primo decennale della morte, che la "memorabile esperienza" di Barbiana "ha avuto l’onore dell’irripetibilità", e si sofferma a rimarcare "lo scandaloso divario che ci fu tra gli strumenti didattici usati e i risultati perseguiti, dei quali si parla anche fuori d’Italia; alta lezione di scienza ma antitecnologica". Milani, "genio cristiano", fu protagonista di una "rivoluzione", che sta tutta nell’aver "detto e dimostrato che colui che apprende dà di più, inventa di più di colui che insegna".
Milani, per Listri, praticò "una perfetta obbedienza": con questo forse evitando di rimarcare quanto tale obbedienza fosse invece sofferta e, come dire, ‘estorta’ al Priore da quel ‘senso di colpa’, di "angoscia del peccato" di cui, venti anni più tardi, parlerà don Enzo Mazzi.
Un altro religioso, Nazzareno Fabbretti, in un articolo che apparirà su Madre alcuni mesi più tardi, sembra quasi rispondere a Listri, allorché sottolinea come l’obbedienza del Priore sia stata "strumentalizzata per recuperare il patrimonio inestimabile dell'esempio di Milani, ma senza ammettere le colpe, gli errori e i dolori con cui, lui vivo, quell'obbedienza era stata chiesta e ottenuta". Ed aggiunge poi che "molti cattolici tendono a separare il Milani digeribile, agiografico e apologetico da quello indigeribile, ancora insopportabile, che "scandalizza"".
Già Fabbretti, su L’Educatore Italiano del 1° novembre ’67, aveva ricordato come don Lorenzo avesse "posto in crisi il oncetto d'ubbidienza tradizionale, specialmente all'interno della Chiesa", sin dalla Lettera ai giudici, documento "degno -anche per grandezza di stile- di figurare tra le pagine più decisive dei padri della Chiesa".
Al riguardo, sembra esprimere un punto di vista in parte contrastante Carlo Galeotti, che scrive su Luce negli anni ’90*, allorché vede in Milani "un prete che non fa parte della tradizione cattolica italiana".
Un breve saggio di Guido Zappa, apparso nel 1975 sul n° 5 di Studium*, esamina con attenzione il volume da poco uscito delle Lettere alla mamma, ma ripercorre e commenta tutto il percorso umano di don Lorenzo, dagli anni del seminario fino alla morte, evidenziando molti dei temi sui quali verte, tuttora, il dibattito milaniano.
Tra l’altro Zappa pare sorprendersi della condanna del S. Uffizio ad Esperienze pastorali, in cui, sì, "c’è un certo classismo, ma c’è anche un profondo attaccamento alla Chiesa". E, riguardo ad alcuni giudizi espressi nella Lettera ai cappellani militari toscani, essi sono, è vero, "discutibili", ma "costituiscono un’evidente reazione alla presentazione agiografica del Risorgimento, un tempo estremamente diffusa": chissà, aggiungiamo noi, che se oggi questa modalità di presentazione della storia italiana dell’Ottocento è diversa, meno ‘agiografica’, non lo si debba un poco anche alla Lettera in questione...
Su Giorni del 20 luglio ’77, Maurizio Di Giacomo confronta causticamente le frasi elogiative di Civiltà Cattolica, quindicinale dei gesuiti, con le quali nel 1970 veniva descritto Lorenzo Milani ("un uomo che riesce ancora oggi a scuotere salutarmente il lettore e a farlo riflettere") con quelle che erano state usate, sulla stessa rivista, per stroncare Esperienze pastorali dodici anni prima.
In questo stesso articolo, Di Giacomo riprende (e avrà modo di farlo ancora in scritti successivi) un tema a lui caro, quello dell’uso, spesso strumentale, degli inediti milaniani, e della loro non pubblicazione, oppure di una pubblicazione "a spizzico", talvolta "purgata" sia delle "espressioni colorite" del Priore, sia di "nomi e cognomi di ecclesiastici responsabili delle misure disciplinari nei suoi confronti".
E’ un tema caro anche a Giorgio Pecorini che già a partire dal ’68, in una lettera a Michele Gesualdi datata 8 ottobre (e citata da Di Giacomo in un articolo del ’76 su IDOC Internazionale*), chiedeva di non "tenere in serbo un solo documento, tagliare una sola frase, togliere un solo aggettivo, nascondere un solo nome".
Una richiesta che, ad oggi, è ancora inascoltata, come lo stesso Pecorini lamenterà nel suo Don Milani. Chi era costui?.
Giorgio Straniero si sofferma piuttosto su alcuni aspetti della scuola di Barbiana, riportando al riguardo una illuminante testimonianza di Gianpaolo Meucci: "Don Milani era un maestro dolcissimo [...] ma era anche un maestro che allo spettatore esterno poteva apparire duro e intransigente. I suoi allievi sapevano che quello che chiedeva loro era possibile e rappresentava un obiettivo necessario per la loro realizzazione".
In un articolo apparso su La Nazione il 25 giugno ’77, e ripubblicato identico, due settimane più tardi, dallo stesso Osservatore Romano (a riprova di quanto già fosse andato avanti il recupero di questo prete una volta pur così scomodo...), Dino Pieraccioni osserva che di don Lorenzo rimane "la figura eccezionale, come quella di chi riuscì a proporre a una ventina di ragazzi, operai e contadini, attraverso una scuola dura che non conosce vacanze, la più grande rivoluzione didattica e pedagogica sperimentata in Italia negli ultimi cinquant'anni".
ESEMPIO DI OBBEDIENZA E DI FEDE CRISTIANA
Un profilo del priore di Barbiana - Riflessioni su Esperienze pastorali
di Reginaldo Santilli
Avvenire, Milano, 13 maggio 1977, pag. 6, cronaca di Firenze
Ricorre quest'anno, il 26 giugno, il decimo anniversario della morte di don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana la cui figura e la cui opera, che hanno segnato il suo tempo, sono ancor oggi il motivo di riflessione non solo nell'ambito della Chiesa fiorentina, ma anche in quello più ampio e significativo della Chiesa italiana. Ci pare che la cosa migliore per ricostruire la sua esperienza pastorale, sia quello di pubblicare delle testimonianze dirette, di sacerdoti e laici che gli sono stati vicini, che in qualche modo hanno avuto contatti con la sua stessa esperienza. Pubblichiamo oggi la prima di queste testimonianze, quella di Padre Reginaldo Santilli, vicario episcopale per i laici.
Dalla morte di don Milani (26 giugno 1967) a oggi, volumi che illustrano la sua figura e la sua opera non sono mancati; direi -se non si trattasse di una figura che ha segnato il suo tempo con una certa novità di atteggiamento e con idee ancora non del tutto scandite nei loro risvolti e nelle loro implicanze- che si è scritto anche troppo, spesso riportando le stesse cose con le stesse identiche considerazioni. Anche se tutti sono convinti che egli ha sollevato problemi gravi e incomodi verso i quali la coscienza di molti cattolici non era abbastanza preparata. E forse non lo è neppure oggi.
Questa che delineo non è una sintesi qualsiasi della sua vita ma l'immagine che di lui mi sono fatta sin da quando lo conobbi la prima volta. Un don Milani intimo. Niente altro che questo. Ed è l'omaggio di un amico. Mi è stato riferito da persona qualificata che, qualche mese prima della morte, egli avrebbe detto, ricordando i giorni infocati della polemica intorno a Esperienze Pastorali: "a padre Santilli devo volere molto bene perché molto ha rischiato per me". Accetto il pensiero come testimonianza di affetto.
Non mi è facile dimenticarlo, anche se lo volessi. L'ebbi allievo alle lezioni di sociologia nel seminario maggiore fiorentino: un allievo per niente svagato ma molto interessato e attento, più che alla nuda lezione, alle immediate applicazioni nella vita di ogni giorno. Questo risulta chiaro e immediato da varie allusioni che leggo nelle sue Lettere alla mamma. Ricordo le interminabili sue obiezioni che facevano passare in cavalleria l'esposizione di rito per trasformarla in apertura viva sui problemi che più gli stavano a cuore. Non era mai tenero per le disquisizioni teoriche. Lo ricordo bene. Lezioni animatissime dunque e, a volte, fatalmente chiassose, per il parziale o totale dissenso dei compagni di classe.
Quando don Milani era seminarista, certi orizzonti non ancora s'erano aperti. Gli unici quotidiani che avevano diritto di ospitalità erano l'"Osservatore Romano" e, ma non sempre, l'"Avvenire d'Italia". Non mancavano peraltro pubblicazioni edificanti e qualche rivista di informazioni cattoliche. L'aria "nuova" è entrata dopo e, con essa, una maggiore tensione verso la cultura, intesa anche come conoscenza delle posizioni altrui in un mondo che andava velocemente trasformandosi, attraverso tecniche imprevedibili.
A don Lorenzo -e possono testimoniarlo i suoi compagni di seminario- dava noia l'imborghesimento di certi settori cristiani e l'arresto, su temi accettati acriticamente, di una mentalità, restia, forse per eccessive paure di inquinamenti soprattutto nel settore sociale, ad accogliere quello che i nuovi tempi stavano portando. Ne era preoccupato e lo dimostrava apertamente, pur nella rigidezza con cui rispettava la disciplina dello stare insieme. Le regole comuni, insomma.
Aveva una dialettica mordente nelle discussioni. La previsione di affogare nelle pieghe dell'anonimato deve avergli prodotto il desiderio di imboccare -lui proveniente da famiglia benestante- una strada diversa, anche se non ancora chiaramente delineata. L'attesa della povera gente, degli emarginati, degli sfruttati, lo scuoterà più tardi, a contatto con la realtà di ogni giorn[o]. Immesso nella cura d'anime, vi si buttò a corpo morto; e le sue esperienze -pur tanto discusse e tanto diversamente interpretate- ce le ha fatte conoscere poi in una serie di pubblicazioni, insieme al suo proposito di "fare bene il prete", senza darsi in prestito a nessun partito. Rifiutando anzi ogni programma di partito e mai risparmiando critiche acerbe e solenni a quello stesso marxismo cui si era voluto vederlo attaccato. Per lui non esisteva la destra e la sinistra ma solo la povera gente da salvare, da istruire, da coscientizzare. Il mio ricordo per don Lorenzo rimane essenzialmente legato al primo dei suoi libri: "Esperienze Pastorali", perché, come vedremo, ne fui parte in causa e, come rilevo da lettere del tempo, il più direttamente responsabile dopo di lui.
A distanza di anni, in una serenità che allora non poteva esserci per l'asprezza delle polemiche, ho tentato di ricostruire quella difficile, penosa e complessa vicenda, annotando come obiettivamente andarono le cose e riconoscendo che, nelle disposizioni della Provvidenza, anche le imprudenze e la fretta degli uomini, servono a realizzare certi disegni di cui non se ne vede immediatamente la ragione. Quel libro non ebbe natali tranquilli, come tutti sanno; da alcuni fu definito addirittura "profetico" e teso a far notare l'urgenza di un rinnovamento nei nostri metodi pastorali; altri lo rifiutarono radicalmente; altri ancora ci videro "la presunzione di un uomo, sia pure prete, di voler impartire lezioni alla Chiesa", come leggo in alcune lettere.
Non ho inteso allora (1958) e non intendo ora legarmi ad alcuni di quei giudizi. Mi interessa sottolineare che l'autore "non era un ribelle e molto meno un rivoluzionario". Era e restò figlio obbediente della Chiesa e aveva tutte le carte in regola con Dio e con la sua coscienza. Scrisse di lui un suo compagno di Seminario, don Nesi: "don Milani ha avuto nell'obbedienza il suo pregio, il suo titolo e il suo merito". Era persino scrupoloso. Quel suo sorriso amaro, quel suo non concedersi mai all'ozio sino alla morte, quel suo modo di fare che tanto risentimento suscitò in chi andava da lui solo per curiosare sui suoi sentimenti e sulle sue opinioni, quel suo viso apparentemente sempre atteggiato a malinconia, erano un netto rifiuto di certo conformismo e testimonianza di una solitudine -cercata e voluta- come rimedio unico a tante dispersioni alle quali va fatalmente incontro l'uomo d'azione. Don Milani non voleva dimenticare l'essenziale che per un sacerdote, come, del resto, per ogni cristiano autentico, è l'intimo colloquio con Dio. Era uomo di preghiera. Questo nessuno glielo ha mai contestato, neppure nei momenti più drammatici della polemica. In questo senso vanno intese le due lettere a me dirette e nelle quali non c'era ombra di risentimento per alcuno ma solo il desiderio, più volte ribadito, di mettere le cose "in sesto" alla luce della fede e della pietà cristiana. Dentro, non fuori della Chiesa, perché la sua contestazione avesse senso e valore. Quando, dopo qualche mese, dalla pubblicazione di "Esperienze Pastorali" lo incontrai per puro caso, come per tacito consenso percepito solo interiormente, parlammo di altro, non del volume. Mi invitò a fargli visita a Barbiana. Gli promisi che sarei andato. Non mantenni la promessa -e ora mi pento amaramente- per ragioni diverse (non escluso l'assillo della scuola). Don Lorenzo attese invano. Desiderava mostrarmi la sua "scuola delle sei anime", (così chiamava i bambini, mentre gli altri erano "contadini"). Un complesso di circostanze diluì ancor più il nostro dialogo, sino a farlo sparire, per qualche anno, quasi del tutto.
Lo rividi in via degli Avelli, a fianco della Basilica di Santa Maria Novella. Era in bicicletta. Quasi non lo riconobbi. Fu lui stesso a fermarmi e ne fui oltremodo lieto. Era stanco e un po' triste. Nel volto pallidissimo e affilato lessi qualcosa che mi fece male. Ebbi il presentimento di un male inarrestabile: forse per precedenti informazioni di persona amica sullo stato della sua salute. Percepii distintamente che quello era l'ultimo nostro incontro quaggiù. Ed è un'impressione che credo avesse anche lui, perché mi salutò abbracciandomi e baciandomi, proprio come si fa quando ci si separa per molto tempo o per un lungo viaggio.
Rimontò in bicicletta. Si allontanò con una pedalata decisa. Lo seguii con lo sguardo sino alla curva di piazza Stazione. Mi si strinse l'anima e il cuore. Quell'uomo -che si interessava ancora a una lezione di antropologia, (andava infatti in Seminario ad ascoltare una conferenza di don Raffaello Parenti)- serrava dentro una sofferenza terribile che scandiva, per lui votato alla morte a breve scadenza, momenti drammatici. Il tempo non era ormai più suo. Lui lo sapeva. Il tormento lo portava dentro ed era per noi inafferrabile. Non mi ha mai domandato cosa ne pensassi di lui e delle sue opinioni né io ebbi modo di dirglielo. Pareva che a tutti e due mancasse il coraggio di un colloquio chiarificatore. Ecco perché ogni volta che, in seguito, la stampa ebbe a occuparsi di lui in bene o in male, gli sono stato vicino silenziosamente. Proprio per quel mancato colloquio, temevo di far male, parlando. Anche prendendo le sue difese.
Al di là delle sue opinioni e dei suoi libri, don Lorenzo lascia ai suoi ragazzi di Barbiana -ora sparsi per il mondo- e a tutti un "esempio di obbedienza", che, in questi momenti, in cui la contestazione ha assunto toni vertiginosi, ci richiama all'essenziale, tanto più efficacemente in quanto proviene da uno spirito per il quale l'anelito alla libertà era stato ragione di vita e come il respiro: "io mi piegherò subito a qualsiasi provvedimento..." "egli (il cardinale) è contentissimo di me e della mia sperimentata obbedienza". E poi il suo attaccamento alla Chiesa dalla quale troppi avrebbero voluto vederlo lontano e ribelle: "non mi ribellerò mai alla Chiesa... non saprei da chi altri andare a cercarlo (il perdono dei peccati) quando avessi lasciato la Chiesa". Credo che in questo "stare con la Chiesa" sia la giusta misura di don Milani più che nei suoi scritti e nelle sue opinioni. Stare con la Chiesa anche quando essa maternamente ma fermamente ci richiama e ci corregge. E' lo stesso sentimento che animò tutta la travagliata vita di don Primo Mazzolari e ne fece uomo fedelissimo: "la Chiesa è custode dell'Eterno e io voglio rimanere nell'Eterno"... "Non voglio né posso contravvenire alla disciplina della Chiesa, né venire a patti con la mia coscienza di uomo e di sacerdote". "Non saremo mai, aiutandoci Dio, né apostati, né scismatici, né ribelli. Non per mancanza di ardire ma per ragioni interiori di fede". "Non cerco giustificazioni personali, ma chiedo, al mio vescovo per primo, di poter servire fedelmente e liberamente la mia Chiesa". Due anime così diverse nei loro risvolti interiori, ma tanto vicini per la fedeltà alla Chiesa dentro la quale vedevano possibile realizzare la propria identità di cristiani e di preti.
Don Bensi ci ha fatto conoscere, in un'intervista concessa a padre Fabbretti, quale fosse realmente il punto d'appoggio di questa fedeltà: la fiducia in chi vegliava sulla sua anima perché non si smarrisse. Sin dalla permanenza in Seminario, don Lorenzo aveva capito che l'elemento determinante per un'azione veramente cristiana e autenticamente apostolica, era questo affidarsi a Dio e al direttore spirituale. Sapeva di questo rifugio sicuro. E fu la sua salvezza.
Forse la spregiudicatezza del suo modo di esprimersi dette noia a qualcuno. Ed è spiegabile. Non aveva, come suol dirsi, peli sulla lingua, quando si trattava di dire la verità. Con tutti. Don Milani non è certamente un santo da mettersi sugli altari. Non ce lo vedo. Difetti ne ebbe e tanti. Ma i richiami vengono non solo dai grandi santi che la Chiesa ha canonizzato. Ci sono state, lungo il corso dei secoli -e ci sono tuttora- anime generose che, pure in mezzo agli inevitabili punti oscuri e le ombre di cui è intessuta la nostra povera esistenza, hanno saputo illuminare la loro giornata con la fiaccola della verità e dell'amore. Credo che don Milani possa appartenere a questa serie. "Per tutto quello che ha fatto, pensiamo sia vissuto e morto bene, pur dopo sofferenze tremende. Per questo i laici, come noi, che non se ne intendono, pensando a lui, hanno in mente la vita e la morte dei santi". Così E. Enriquez Agnoletti scrisse alla morte di don Milani. Ed è una testimonianza non davvero sospetta.
DON MILANI PRETE SCOMODO
Il parroco maestro
di Pier Francesco Listri
La Nazione, Firenze, sabato 25 giugno 1977
Sono passati oggi tremilaseicentocinquanta giorni da quando a Barbiana morì don Lorenzo Milani. Che è cambiato da allora nelle cose che gli stavano a cuore; quanto sono cambiati perfino quelli che l'hanno letto e apprezzato? Di questo bilancio, unico degno di un decennale, le voci sono alcune chiare altre confuse. Elenchiamole a caso. Don Milani avvertì (fu condannato per questo) che "l'obbedienza non è più una virtù"; oggi si recrimina sulla disobbedienza dilagata come vizio (ma dovrei dire peccato). Confessò al comunista Pipetta che avrebbe combattuto accanto a lui; ma nel clima odierno come inserire l'imbarazzante chiusa di quella confessione: "Ma dopo, bada, io ti tradirò"? Praticò una scuola difficile, faticosa fino all'eroismo e la scuola che s'è chiusa ieri in tutta Italia è facile o facilona, senza disciplina interiore, con poco studio. Visse la cultura come contrario dell'intellettualismo, semmai come aristocrazia e dignità dell'uomo: i suoi stessi lodatori sono invece esempi di escogitazione; e nulla più della società colta contemporanea tende a fini strumentali.
Altre cose che non disse ma fece indicano baratri, talvolta approfonditi, fra il suo metro e il nostro. Fu prete obbedientissimo alla gerarchia; uomo di alta spiritualità; parroco-padre di un pugno di ragazzi; ebbe indipendenza altera e intelligente nei confronti delle ideologie; fu sgarbato e ottimista: monete tutte che han oggi scarso corso.
In un punto solo l'astuzia della storia ha sconfitto l'ipocrisia della cultura: morto lui la sua scuola s'è chiusa; non ci sono stati epigoni o discepoli. Quella mirabile esperienza ha avuto l'onore dell'irripetibilità. Barbiana è tornata a essere un posto quasi da capre e le due stanze della canonica che hanno visto un altissimo progetto pedagogico, sono vuote, con qualche foglio ingiallito e qualche palchetto appena di libri: a misurare lo scandaloso divario che ci fu fra gli strumenti didattici usati e i risultati perseguiti, dei quali si parla ormai anche fuori d’Italia; alta lezione di scienza ma antitecnologica.
Mi pare che così stando le cose non ci sia tanto da celebrare quanto da riflettere.
Pensare per esempio che Don Milani fu in certo senso un genio cristiano, raro com'è naturale, e solo apparentemente affine ai propri tempi. Geniale fu la sua opera come lo è ogni esagerazione intenzionale e lungimirante che sforza la storia, ribaltando il buon senso, per spremerne, agli occhi dei contemporanei, tutta la potenzialità. Tanto è vero che la scuola di Don Milani, per limitarci a questo campo, non è una scuola ripetibile o diffondibile su larga scala. Com'è vero che Don Milani non fu uomo di buon senso e anzi scandalizzò gli innocenti praticanti del buon senso.
Ma questa assoluta e tremenda tensione che il prete maestro impose dentro e attorno a sé, mise a correttivo la pratica di una perfetta obbedienza, di un'aderenza meticolosa all'ortodossia e alle leggi della sua Chiesa. Ebbe dunque non solo il tremendo impegno di praticare il Vangelo ma anche l'aristocratico puntiglio di non disobbidire al catechismo. Contro le dispute intellettuali e teologali gli bastava -scrisse- un catechismo da bambini, di quelli che si comprano per poche lire.
Quanto al suo essere cristiano, cercò di inverare il Vangelo riversandolo quasi totalmente in quella stupenda rigeneratrice e rivoluzionaria potenzialità che è propria dell'educare, accogliendo così (e piegandolo a esigenze più sue) il mito che da due secoli il laicismo moderno era venuto scoprendo.
All'incrocio fra l'evangelizzazione salvatrice del cristiano e l'impegno laico di ridare dignità agli oppressi, sta la rivoluzione di Don Milani che fra molti accenti originali ne ha uno di straordinaria importanza: l'aver detto e dimostrato che colui che apprende dà di più, inventa di più di colui che insegna.
Poi viene il resto: per esempio dimostrare che si è poveri non di ricchezze ma di parole e che bisogna dunque con urgenza e prima di tutto dar voce (con tanto di grammatica, anche) a chi per secoli non l’ha avuta.
Come perfetto è l’ideale evangelico del prete così perfetta e tremendamente seria doveva essere la sua scuola. Libera da strumentalizzazioni sociali e politiche; superiore ai piccoli traguardi professionali; sfida che non consente soste (nella mia scuola si studia trecentosessantacinque giorni all’anno, domeniche comprese...).
Rileggendo le sue lettere mi accorgo che Don Milani interpreta addirittura la missione salvatrice di Cristo tutta in chiave pedagogica: ‘Ha giorno per giorno -scriveva a un regista che doveva fare un film sulla vita di Cristo -studiato i suoi ascoltatori e dosato le sue parole sulla loro capacità progressiva di riceverlo. Questa lotta quotidiana contro l'indifferenza, il dubbio, 1'incomprensione, la durezza di cuore e di testa dei suoi ascoltatori è il filo conduttore della sua vita". E conclude, con parole che possiamo ora facilmente riferire a lui stesso: "Era duro, ma facendo così gli conduceva per mano".
In questo progetto che coinvolge insieme disperazione e speranza, tutto diventa magicamente scuola non in senso umanistico ma in senso politecnico. Con i contadinelli don Lorenzo Milani studia gli astri e discute di politica leggendo i giornali; conversa davanti ai suoi scolari con chiunque salga a trovarlo; costruisce addirittura una piscina tra gli sterpi della canonica montana perché il corpo ha i suoi diritti e bisogna educarlo; impone l’ordine della persona ai piccoli pastori, legge annuari di statistica, studia con loro le lingue, ascolta musica. Perfino della sua morte fa un atto altissimo di carità e di scuola: vuole che quei "figli" gli siano accanto per sapere cos’è il morire e mandarlo a mente.
Certo, predilige i bimbi e i ragazzi (gli unici -noterà tante volte- senza malizia) per un bisogno intrinseco di purezza che non deluda la sua immensa sete di paternità spirituale.
Riflettere su Don Milani significa anche riconoscere ora che aveva ragione scrivendo "mi pare di seminare il grano trovato nelle tombe dei faraoni...": perché si è servito davvero di sostanza antichissima per migliorare il futuro, vivendo da uomo del presente. Come cristiano è stato segno di contraddizione: ha dimostrato che un cattolico è politico senza far politica; ha obbligato i potenti -autorità religiose e tribunali militari, organi di stampa e intellettuali- a misurare la parte di imbecillità consustanziale al potere il quale, per sua natura, governa la realtà ignorandone il carico di speranza. Agli altri, a quelli della sua parte ha fatto intendere che la carità può inverarsi in un progetto sociale senza che la fede vi si appaghi.
Della santità, se i tempi odierni ne tollerano, non c'è molto da dire. Ma della strategia educativa ci resta ancora davanti agli occhi un grande programma da avviare e da svolgere. "La scuola -ha scritto Don Milani siede fra passato e futuro e deve averli presenti entrambi... Il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso".
Se questo è vero ci tocca ora, guardandoci intorno, tacere e riflettere.
DON MILANI PRETE SCOMODO
Una vita diversa
di Dino Pieraccioni
La Nazione, Firenze, sabato 25 giugno 1977
Il 26 giugno di quest'anno si compiono giusto dieci anni dalla morte di don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, avvenuta a Firenze nel 1967. La figura di questo singolare prete fiorentino continua a suscitare interessi sempre più vivi. La bibliografia ormai non si conta; ci sono stati programmi speciali alla radio e alla televisione, dibattiti a tutti i livelli, perfino alcune "proposte teatrali" sulla problematica civile morale e religiosa della sua opera; si son fatti anche, per vero mediocri e inconcludenti assai assai, perfino alcuni film. Resta di lui la figura eccezionale, come quella di chi riuscì a proporre a una ventina di ragazzi, operai è contadini, attraverso una scuola dura che non conosce vacanze, la più grande rivoluzione didattica e pedagogica sperimentata in Italia negli ultimi cinquant'anni.
Lorenzo Milani apparteneva, com'è noto, a una famiglia di grido. Nato a Firenze il 27 giugno 1923, era figlio di un chimico, ricco proprietario di terre, e d'un ebrea triestina originaria della Boemia. II suo bisnonno Domenico, grecista e latinista, epigrafista e papirologo insigne e senatore del regno, era stato uno dei grandi maestri dell'università di Firenze, uomo di studi e di esperienze vastissime (domandò un giorno a una ragazzina che studi aveva fatto: "Ho finito", disse quella. "Beata lei che ha finito, io no". Aveva ottant'anni e seguitava ancora a studiare).
La pittura
Lorenzo conseguì senz'esami, e anche senza infamia e senza lode, una maturità "di guerra" in base ai voti del terzo trimestre nel maggio 1941 (le scuole quell'anno furon chiuse in anticipo e non ci furono esami per via dello stato di guerra). Di iscriversi all'università non ne aveva alcuna voglia; "farò il pittore" aveva annunziato ai familiari appena conseguita la maturità, e alla pittura lo iniziò il pittore Staude, morto quasi settantenne nel ’73 in quella Firenze dove per mezzo secolo aveva lavorato e insegnato. Ma l'attività pittorica di Lorenzo Milani non durò molto; era già seminarista nel novembre del ’43 a Cestello in Oltrarno. La sua, fra discussioni familiari e dissensi, era stata una scelta di libertà: "Quando uno liberamente regala la sua libertà (scriveva alla mamma) è più libero di uno che è costretto a tenersela". Quattro anni dopo, il 13 luglio ’47, era prete, ordinato in Santa Maria del Fiore dal grande cardinale Elia Dalla Costa. E fu allora che cominciò la sua vita di sacerdote, una vita molto semplice, in due sole tappe: cappellano a San Donato di Calenzano dall'ottobre 1947, quindi priore di Sant'Andrea di Barbiana dal dicembre '54 fino alla morte, avvenuta, dicevamo, il 26 giugno 1967. Don Milani era già a Barbiana, quando nell'aprile del '58 uscirono le ormai celebri Esperienze pastorali, un libro che parve subito per quell'epoca e per più ragioni rivoluzionario, anche se appena pochi anni dopo fu "sorpassato a sinistra da un papa", come ebbe a scrivere a un amico, lo stesso don Milani, alludendo ai primi documenti di papa Giovanni XXIII. Già al suo primo apparire (don Facibeni, che ne era rimasto subito commosso, era morto il 2 agosto lasciando il libro aperto a pagina 83: "l'incapacità dei religiosi di afferrare la situazione e il linguaggio dei nostri popoli"), un prete della spiritualità di don Primo Mazzolari aveva scritto testualmente: "Non mancheranno i lettori scandalizzati, reclutati facilmente fra quelli che non hanno mai fatto cura d'anime e tra quelli che di solito giudicano senza leggere e con le consuete pregiudiziali verso coloro che usano scrivere senza un titolo accademico. In genere gli scritti dei parroci rurali fanno paura per la loro poca educazione nel dire le cose che vedono. Però se qualche volta quel mondo della cosiddetta cultura pastorale cattolica badasse anche a queste povere voci, forse il "mondo moderno avrebbe camminato un po' più verso qualche soluzione meno inconsistente".
Non è qui il caso ne questo il luogo per fare la storia delle polemiche (rinnovatesi anche recentemente) che si levarono alla comparsa di Esperienze pastorali, un libro che pur aveva un'ampia prefazione di un vescovo e l'imprimatur di un cardinale di Santa Romana Chiesa, appunto il Cardinale Dalla Costa, fino all'ordine, che venne dall'allora Congregazione del Santo Uffizio, di ritirare il libro dal commercio. Non ci fu tuttavia una condanna dottrinale; anzi il nuovo pontefice Giovanni XXIII, ricevendo in udienza monsignor D'Avack, appunto l'arcivescovo di Camerino autore della prefazione al libro, aveva di sua iniziativa parlato di don Milani "con grande affetto paterno". Era in fondo un affetto di cui don Milani si mostrò sempre degnissimo; anche nei momenti più difficili e neri, non passarono mai per la sua mente ombre di incertezze o di abbandono. AI padre Santilli, il "censore" ecclesiastico cui spettava di diritto l'approvazione del libro, scriveva: "Non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa". E ancora l'anno dopo all'amico Nicola Pistelli: "Noi la Chiesa non la lasceremo mai, perché non possiamo vivere senza i suoi Sacramenti e senza il suo insegnamento". E infine al suo antico collaboratore e amico, il professor Agostino Ammannati, aveva detto: "lo vivo al centro della Chiesa, non ai margini; mi dispiacerebbe se si pensasse il contrario".
Il parroco
Don Milani rimane, com'era sempre stato, soprattutto un prete. Aveva padronanza assoluta delle lingue (il tedesco e Il francese soprattutto), conosceva e seguiva la più aggiornata produzione teologica straniera (in particolare quella francese), ma coi ragazzi della parrocchia restava solo un buon semplice parroco di campagna. "La religione (scriveva nel 1961) per me consiste solo nell'osservare i dieci Comandamenti e confessarsi presto quando non si sono osservati. Tutto il resto son balle e appartiene a un livello che non è per me e che certo non serve ai poveri".
La sua vita, a Calenzano come a Barbiana, era la chiesa e la scuola, la "sua" scuola. Dice ancora il professor Ammannati: "La scuola di don Milani consisteva soprattutto nell'insegnare la lingua italiana ai poveri. Il principio su cui si basava era questo: una gran massa di uomini non hanno mai avuto voce nella società, proprio perché non sono stati messi in condizione di esprimersi, di avere la padronanza del linguaggio. Oggi le cose non sono affatto cambiate. Il benessere, i vantaggi che il progresso moderno offre non sono bastati a eliminare le ingiustizie di cui soffrono coloro che sono soltanto sfruttati: bisogna dar loro la parola, il senso di uguaglianza di fronte a chi sa parlare".
Don Milani faceva dunque scuola e, solo scuola, la mattina come la sera, nei giorni di lavoro come nei giorni festivi, subito dopo la Messa e il Vangelo spiegato a tutti. Non gli passò mai per la testa di fare il prete operaio tessile a San Donato di Calenzano o il prete contadino a Barbiana. "Invitate gli operai a casa vostra", diceva, "e fategli scuola. Questo dovete fare. Se andate in fabbrica, togliete semplicemente dei posti di lavoro a gente che ne ha bisogno". E appunto come prete, nessuno lo vide mai una sola volta senza tonaca, anzi sempre con una tonaca ordinatamente tenuta, anche sui monti di Barbiana. Uno dei suoi ragazzi racconta: "In tutti gli anni che l'ho frequentato non m'è mai capitato di vederlo senza la tonaca, con la barba lunga. Eppure d'estate si passavano le vacanze lì per dare una mano e la mattina capita a chiunque dì mostrarsi sbracato per la casa. Don Milani si alzava prima degli altri e, uscendo di camera, era già perfetto".
La scuola di Barbiana oggi è chiusa e attorno alla chiesa e al piccolo cimitero ormai cresce l'erba. Tutti i ragazzi di don Milani sono uomini sparsi per il mondo, sindacalisti insegnanti operai impiegati. A chi guardi le cose dall'esterno, tutta l'esperienza di Barbiana potrebbe anche parere un fallimento. E' la legge generale di quel fallimento esteriore del cristiano: "se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto".
Non abbiam detto nulla del gran clamore che ci fu a proposito dell'obiezione di coscienza, dopo la nota lettera ai cappellani militari che portò don Milani in tribunale, dove fu poi assolto con formula piena "per non aver commesso il fatto", insieme al corrèo Luca Pavolini, che aveva pubblicato la lettera di don Milani nella sua rivista "Rinascita". Al giudizio di appello, che si ebbe alcun tempo dopo, don Milani non era presente: riposava ormai da quattro mesi nel solitario cimitero di Barbiana. Pavolini fu condannato, ma fu successivamente amnistiato per sentenza della Cassazione. Da allora molte acque sono passate sotto i ponti dell'Arno e molte cose sono cambiate: se l'obbiezione di coscienza è oggi riconosciuta, per giustificati motivi morali e religiosi, dalle leggi dello Stato italiano, come aveva del resto auspicato il Concilio Vaticano II ("Gaudium et Spes", 79), si deve anche alle sofferenze e all'opera di don Milani prete di Barbiana.
LE LETTERE DI DON MILANI SCOTTANO ANCORA
A dieci anni dalla morte del "priore di Barbiana" restano ancora
"nel cassetto" i documenti e gli scritti più indigesti alla gerarchia
di Maurizio di Giacomo
Giorni, Milano, 20 luglio 1977, pagg. 38-39
Civiltà Cattolica,
il quindicinale dei gesuiti, allorché furono rese note le prime 127 lettere inedite di don Lorenzo Milani "priore di Barbiana" così commentò la sua figura il 21 novembre 1970. "È stato un profeta del nostro tempo? Per parte nostra non amiamo usare molto questo termine, forse perché oggi se ne fa facilmente scialo. Ci sembra preferibile dire che don Milani è stato un uomo che riesce ancora oggi a scuotere salutarmente il lettore e a farlo riflettere su un certo tipo di cristianesimo (che non è affatto cristianesimo) e su certi modi di essere cristiani (che non sono affatto cristiani)".Appena dodici anni prima, il 20 settembre 1958, il gesuita padre Perego aveva stroncato in questi termini sulla stessa Civiltà Cattolica il libro del prete fiorentino "Esperienze pastorali" dove egli denunciava gli effetti nefasti di un'educazione da oratorio e la compromissione della Chiesa con la Dc al potere.
"Il libro che egli getta sul mercato non chiarisce le idee, non convalida le buone volontà ma, al contrario, confonde le menti, esaspera gli spiriti, scalfisce la fiducia nella Chiesa e suggerisce propositi sconsigliati ". Il motivo di tanta stizza era evidente se si riflette che don Milani chiudeva il suo libro con queste considerazioni: "Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. È nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici dl Franco. Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare".
Il 26 giugno 1977 è stato il 10° anniversario dalla sua morte, all'età di soli 44 anni, a Firenze. Entrato in seminario nel 1943, aveva iniziato il suo apostolato a Calenzano, un paese operaio vicino Firenze. Convinto anticomunista nelle elezioni del 1948, predicò contro le bandiere rosse; ma il successivo esame della politica restauratrice della Dc, e la constatazione dell'emarginazione sociale e spirituale crescenti dei più poveri, uniti a un suo bagaglio culturale di prim'ordine, lo indussero a un cambiamento radicale. Si gettò a far scuola popolare, a tempo pieno, e questa sua attività gli inimicò i preti e le autorità ecclesiastiche che nel dicembre del 1954 lo esiliarono a Barbiana, una canonica abbandonata e sperduta nel Mugello.
In quella condizione di isolamento nacque gradualmente la "Scuola di Barbiana", venne fuori "Esperienze pastorali", fatto ritirare dalla circolazione dal S. Uffizio perché "inopportuno".
A Barbiana don Milani sviluppò un dialogo intransigente ma onesto con i "lontani", ovvero i comunisti. Salì a incontrarlo, una sera, anche l'onorevole Pietro Ingrao che rimase colpito da quell’esperienza. Nel 1965 una sua risposta ai cappellani militari che avevano tacciato di "vili" gli obiettori di coscienza fu pubblicata dalla sola Rinascita, allora diretta da Luca Pavolini, suo amico d'infanzia. Entrambi finirono condannati per quel gesto. L’ultimo suo contributo firmato collettivamente "Scuola di Barbiana" fu la "Lettera a una professoressa", un'accusa documentata e implacabile che ricordò, anche ai partiti di sinistra, il carattere selettivo e classista della scuola dell'obbligo in Italia. Le prime copie del libro uscirono quando don Milani era morto da alcuni giorni.
Fin da allora, nei primi scritti commemorativi che riviste del tipo Testimonianze o Politica dedicarono al "priore di Barbiana", apparvero sue lettere inedite che lasciarono intravvedere una ricca e complessa documentazione non resa ancora nota. Nel maggio del 1970 Michele Gesualdi, uno dei più anziani "ragazzi di Barbiana", pubblicò una scelta di 127 lettere in suo possesso presso Mondadori col titolo "Lettere di don Milani, priore di Barbiana".
Il successo della pubblicazione fu notevole, ma contemporaneamente si venne a conoscenza di circostanze singolari capitate intorno agli inediti di don Milani. Gesualdi possedeva oltre 1.000 inediti; ma se li teneva ben stretti e altri amici del prete barbianese intanto continuavano a pubblicare propri inediti, ma a spizzico. Nel febbraio 1973 la madre di don Milani, Alice Milani Comparetti, pubblicò una propria raccolta di 157 lettere intitolate "Lettere alla mamma".
Tuttavia, un esame attento dei "tagli" presenti nelle lettere fin lì pubblicate induceva a notevoli perplessità sulla completezza di quella documentazione. Nel maggio 1974, infine, la Neera Fallaci pubblicava "Dalla parte dell'ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani" (Milano Libri Edizioni) che consentiva di fare utili confronti con la prima raccolta mondadoriana.
Le sue colorite espressioni
La realtà che emergeva dal confronto era illuminante: i "tagli", di fatto, coprivano espressioni colorite che don Milani usava frequentemente; ma, ciò che era più grave, circostanze e nomi e cognomi di ecclesiastici responsabili delle misure disciplinari nei suoi confronti e verso altri sacerdoti seriamente compromessi con i poveri e con il Vangelo. Questa realtà è convalidata dal libro di M. Lancisi "...E don Milani fondò una scuola" (Ed. Coines) che fa scoprire come, nell'edizione di Mondadori, alcune lettere di don Milani al giudice Giampaolo Meucci, suo amico, siano state gravemente purgate.
Così, mentre gli eredi di don Milani esitavano di fronte ai suoi inediti e la madre di don Milani attivava presso l'università di Bologna un "fondo don Milani" (che oggi raccoglie oltre suoi 600 inediti), la stampa cattolica, Avvenire e Famiglia cristiana, cominciavano a "ricomprendere" il sacerdote di Barbiana utilizzando anch'essi suoi scritti inediti gravemente mutilati, specie per quanto riguarda quello pubblicato da Famiglia cristiana.
A chi giova, in ultima analisi, tutta questa operazione? La risposta di don Bruno Borghi, prete-operaio e amico assai stimato da don Milani, è netta e non lascia dubbi: "Tutto questo serve a qualcuno e a qualcosa: a fare di Lorenzo un uomo che non è più scomodo, a togliergli quella violenza per cui dovrebbe essere irrecuperabile per una chiesa istituzionale, anche se aggiornata e che lo ha combattuto".
DON MILANI: DISOBBEDIENTISSIMO IN CRISTO
di Nazareno Fabbretti
Madre, 1° settembre 1977, pagg. 34-36
A dieci anni dalla sua scomparsa, la figura del priore di Barbiana rimane al centro di molte attenzioni e anche di molte polemiche. L'obbedienza è uno dei temi essenziali che divide i suoi giudici.
Una valutazione attenta del suo messaggio ci insegna questo: non ha disubbidito alla Chiesa, l'ha piuttosto costretta a obbedire al Vangelo più che al potere o al prestigio.
Anche don Lorenzo Milani, morendo, dieci anni fa, il 26 giugno 1967, avrebbe potuto dire, come Simone Weil: "Considero il fallimento la naturale conclusione della mia carriera".
Se la cultura e la sensibilità di molti gruppi ne ha assimilato, almeno in parte, il messaggio e compresa la profezia cristiana e umana, le istituzioni -politica, scolastica, familiare- continuano a sottolineare il "fallimento" del priore di Barbiana. Basti pensare che a dieci anni dalla sua morte egli resta ancora condannato dai nostri tribunali. Assolto infatti da vivo dall'accusa di "apologia di reato" per aver difeso 1'obiezione di coscienza nella "lettera ai cappellani", il 15 febbraio 1966, venne condannato in appello, da morto, il 28 ottobre 1968 dal tribunale di Roma. La scuola, poi, dopo averlo messo su tanti altari di carta, e aver acceso parecchi moccoli di sue citazioni senza preoccuparsi di conoscere il vero contesto di quei pensieri scomodi e folgoranti, lo ha già riseppellito -salvo splendide eccezioni- in un isolamento che ha il suo simbolo più eloquente nell'abbandono in cui si trova la sua tomba, nel piccolo cimitero di Barbiana, assediato dalle ortiche, gran parte dell'anno.
IMMAGINI DISTORTE
Persino la contestazione culturale, il dissenso politico, il cattolicesimo critico più oltranzisti lo hanno spesso tradito largamente e senza rimorsi. Si pensi a che cosa è spesso servito il suo pensiero più famoso e più citato "l'obbedienza non è più una virtù". Avulsa dal contesto dell’occasione e della pagina precisa in cui è espressa, quell'affermazione ha finito per significare tutto e il contrario di tutto, a seconda degli interessi dei citatori. Si è fatto di Milani il ribelle ad oltranza, sempre, comunque, contro tutti e tutto. Esattamente ciò che egli non è mai stato. Se infatti c'è un aspetto scomodo nella sua lezione di uomo e di prete, è proprio la sua obbedienza. Un'obbedienza che, a sua volta, fu ed è ancora strumentalizzata per recuperare il patrimonio inestimabile dell'esempio di Milani, ma senza ammettere le colpe, gli errori e i dolori con cui, lui vivo, quell'obbedienza era stata chiesta e ottenuta.
Mi torna in mente per Milani un pensiero di Mazzolari: "Come Cristo ha previsto, i figli sono sempre pronti a fare il monumento ai profeti lapidati dai loro padri". Con Milani non sono nemmeno i "figli", ma gli stessi "padri" che, accelerando i tempi, gli ergono adesso, utilitariamente, un monumento per la sua obbedienza. Quell’obbedienza ci fu, totale ma razionale, consapevole, critica: piena e difficile come un atto di fede. Come di Mazzolari si è detto che fu, per eccellenza, "obbedientissimo in Cristo", di Milani, in senso identico e con uguale spirito si può però dire che è stato "disobbedientissimo in Cristo".
Non ha disubbidito alla Chiesa; l'ha piuttosto costretta, senza riguardo per nessuno, a obbedire al Vangelo più che al potere, all'interesse, al prestigio e al trionfo. Solo questa è la sua "disobbedienza".
Sull’obbedienza alla Chiesa, Milani non consente illusioni a nessuno. "Io", scrive, "vivo al centro della Chiesa, non ai margini. Mi dispiacerebbe che si pensasse il contrario. Al primo ordine che il vescovo mi dà, se mi sospendesse, eccetera, io mi arrendo immediatamente. Rinuncio subito alle mie idee. Delle mie idee non m'importa nulla. Perché io nella Chiesa ci sto per i sacramenti, non per le mie idee".
"L'obbedienza non è mai più una virtù", per Milani, soltanto in un caso preciso e tragico. Val la pena di citare il brano interamente, e tener conto che fa parte della Lettera ai giudici, cioè dell'autodifesa che Milani, già malato e impossibilitato a recarsi al processo, fa leggere dall'avvocato Gatti, suo rappresentante. Un testo ufficiale e calcolatissimo, insomma. "Siamo giunti a questo assurdo" egli scrive "che l'uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva. L'aviere dell'era atomica riempie il serbatoio dell'apparecchio che poco dopo disintegrerà 200 mila giapponesi e non si pente. A dar retta a certi teorici dell'obbedienza, dell'assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C'è un solo modo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani per cui l'obbedienza non è mai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo ne davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano l'unico responsabile di tutti".
PROFESSIONE DI LIBERTA'
Come si vede, l'affermazione è circostanziata e motivata, non dovrebbe dar adito ad alcuna restrizione o amplificazione. Non è, del resto, né inedita né assurda; è semplicemente la stessa professione di libertà e di disobbedienza di san Pietro davanti al Sinedrio: "E' meglio obbedire a Dio che agli uomini".
Ma non è neanche svincolata dal problema ultimo che la motiva: fare di tutti i giovani "dei sovrani" cioè ricchi di libertà pari alla loro dignità. E chiunque violi questo rapporto è da perseguire anche con le leggi umane, per quanto limitate. Ad un generale che gli ha scritto adirato per quell'affermazione e lo ha coperto di vituperi, Milani risponde: "Lei mi ha dato di ipocrita, pazzo, ignorante, mascalzone, disfattista e traditore, e lo ha fatto su un giornale. Se io la denunciassi lei andrebbe dentro per diffamazione e così libererei dei poveri soldati dal cattivo esempio di un ufficiale che ignora le leggi della Patria e il rispetto che deve ai suoi cittadini che sono tutti suoi uguali davanti alla legge e non inferiori. Inferiori sono quelli che in discussione quando non hanno argomenti credono di poterli sostituire con ingiurie".
Chissà che in questo gli renda ragione la nuova legge sui militari, presto in discussione alla Camera e al Senato nel testo della "bozza Lattanzio", dov'è dato il giusto risalto al diritto d'ogni ufficiale e soldato al "signornò" in caso di "ordini superiori" che costituiscano reato.
Obbedisce sempre, ma sa, e lo dice, cosa può costare un'obbedienza imposta d'arbitrio, senza motivazioni adeguate. C'è un episodio che, nel 1953 gl'ispira una lettera, solo adesso pubblicata integralmente dal destinatario, Gian Paolo Meucci, che rende meglio d'ogni altra pagina il prezzo che può avere in certi momenti l'obbedienza. Gli operai della fonderia Pignone, incoraggiati da La Pira, sindaco di Firenze, hanno occupato la fabbrica messa in liquidazione. L'occupazione è stata condannata non solo dalla Confindustria, ma anche in campo cattolico. Milani scrive a Meucci: "Così stando le cose, è più saggio ridurre i termini a una sola semplicissima scelta. O con Dio contro i poveri o senza Dio con i poveri. E scegliendo io di star con Dio e la sua Chiesa non resta che pregare pei poveri che calpestiamo e tentare di confessarsi spesso per esser pronti al severo castigo di Dio, che non tarderà a venire a indicarci la strada nuova...".
TENSIONE CRISTIANA
Milani è sembrato a qualcuno in ritardo sul concilio. Nei suoi scritti, i riferimenti al Vaticano II sono infatti molto pochi. In realtà, se fu in ritardo sui dati specifici, è solo perché fu in anticipo sullo spirito e il valore profetico del concilio. Su Esperienze pastorali, scritte prima del concilio, c'è molto di più, per certi aspetti, che nel concilio. E il timido auspicio sulla regolamentazione dell'"obiezione di coscienza" che figura nella Gaudium et spes, Milani, nell'ultimo anno della sua vita, lo traduce in una scelta anche personale tanto radicale e violenta da essere processato "per vilipendio", "per istigazione a delinquere", uscendone prima, da vivo, assolto, e poi, da morto, condannato. Non ha torto dunque a parlare di "fallimento", Tuttavia, senza alcuna falsa umiltà egli ha sempre saputo che il suo "fallimento" sarebbe stato un seme più ricco e prepotente d'ogni "successo". Lo diceva chiaro, un po' per celia, un po' convinto: "Io sono il nuovo Padre della Chiesa! Se ne accorgeranno quando sarò morto!".
Se ne sono accorti tutti: ma non per rendergli giustizia, bensì per recuperarlo alla propria causa. Il suo arcivescovo, il cardinale Florit, col quale ebbe gli scontri più violenti e dolorosi -quelli che lo torturarono maggiormente, dato che, come ebreo e convertito, non li aveva messi in conto- disse di lui poco dopo la sua morte: "Nonostante le discrepanze di giudizio, credo che ciò che conta sia la tensione cristiana che lo ha animato". Lo stesso vescovo lo aveva in un primo tempo definito "un bubbone pestifero". Oggi, a dieci anni dalla morte, sembra che soprattutto i laici, e con un'obiettività notevole, siano disposti ad accettare l'eredità di Milani senza riduzioni e edulcoramenti. Eppure sanno bene che anche sulla scuola laica, ad esempio, nessuno è stato più brutale, quasi intollerante di lui.
Molti cattolici tendono a separare il Milani digeribile, agiografico e apologetico da quello indigeribile, ancora insopportabile, che "scandalizza", come si è ripetuto anche in questo decennale della morte. Eppure, come giustamente ricorda un compagno di seminario del priore di Barbiana, don Alfredo Nesi, "la sua sconfitta coinvolge la Chiesa in responsabilità sempre più precise, documentate, non trasferibili, non alienabili. La gerarchia deve "tenere" questo prete e non può non riconoscerne l'ortodossia", perché è nell'accettazione della croce che "Lorenzo consumò la sua obbedienza rara e fortissima, il suo discorso di libertà umana, di radicale disinteresse, di profezia nel cuore della storia". Pretendere di farne, a posteriori, un segno di esemplarità, di discrezione, di unità in tutto, è averne già distrutto l'immagine prima di [aver; n.d.MM] soffocata la profezia". "Io" scriveva poco prima di morire, "al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero". Padre David Turoldo ha ragione a scrivere: "Solo quando la Chiesa avrà il coraggio di riconoscere la santità di don Milani senza togliere neppure una parola (tanto meno le sue parolacce!) alla sua esperienza -tale e quale egli l'ha vissuta-allora dico che avremo una Chiesa veramente nuova; e una nuova santità muoverà il mondo". La sua lezione sta anche in questo, piaccia o no: nell'aver lacerato un'uniformità esteriore, disciplinare, comandata e passivamente accettata, piuttosto che l'unità della fede, che è il vincolo inviolabile della Chiesa.
Mons. Salvatore Baldassarri, ex arcivescovo di Ravenna, ha chiarito bene questo aspetto "scomodo" della profezia e della vocazione di Milani: "Oggi che don Milani è morto, dopo tante sofferenze, il suo caso diventa un 'servizio' per intenderci in questo difficile post-concilio. E cominciamo dalla concordia, un bene che il popolo di Dio ha il sacro dovere di custodire e difendere. Ma che cosa è la concordia? C'è chi la ritiene un'assoluta uniformità, una pianificazione intransigente che va dal primo articolo del Credo ad ogni esperienza pastorale. Ora una tale concordia non è mai esistita nella Chiesa -si vedano ad esempio molti tratti degli Atti degli Apostoli- e guai se fosse esistita. La teologia o non sarebbe nata, o sarebbe morta per asfissia, e così la pastorale. La concordia vera sta nell'una fides".
Obbedienza, ribellione, dedizione agli ultimi, tutto questo Milani l'ha vissuto, liberamente, tempestosamente, sempre nell'una fides. Solo la fede gli ha dato intuizioni, slanci, rabbie, adorazioni, tenerezze (e anche feroce umorismo) per lavare dal cuore della Chiesa gli scoli della pigrizia e le muffe del potere. Solo nella fede egli era disposto, per obbedienza -ma solo dopo aver detto tutto quello che pensava e quello su cui dissentiva- a digerire anche i "rospi". "Siamo pronti anche ad accettare Gedda caudillo d'Italia", scriveva nel 1950, "ma ce lo deve dire il papa, impegnandoci nella fede".
LA SUA UNICITA'
E' per questa unicità ed irripetibilità umana che Milani o si accetta tutto o si rifiuta tutto. E' assurdo, dall'estrema sinistra, vivere di rendita sulla sua affermazione più malintesa, "l'obbedienza non è mai più una virtù", e anche nel suo nome uccidere uomini e speranze; com'è assurdo pencolare, nella scuola, fra il suo "non bocciare" detto nei modi e con i dati più circostanziati -dall'interno d'una pedagogia da lui vissuta a tempo pieno, sino alla distruzione di se stesso- e il recente "ribocciare" che è esploso, capricciosamente, in certe fasce della scuola nostrana alla fine di questo anno scolastico. Milani è inaggregabile. Il suo stesso linguaggio -sul quale, finora, non è stato fatto uno studio critico adeguato- lo dimostra. Quando i suoi stessi ragazzi di Barbiana decisero la scelta e la pubblicazione delle sue lettere per Mondadori, dopo molte discussioni optarono per un'edizione "purgata" del loro priore. Ora, nelle 23 lettere a Gian Paolo Meucci, pubblicate recentemente su Panorama, quel "turpiloquio" secondo me, risulta uno degli elementi, non sostanziali certo, ma indicativi del suo discorso e dei suoi bersagli. Arricchiscono il personaggio, invece di impoverirlo. E d'altronde, non siamo ormai maturi per un epistolario completo e assolutamente integrale? Fuori d'ogni schema fisso, lontano anni-luce dalle catalogazioni dei manuali sia conservatori che progressisti, Milani "tradisce" sempre, per fortuna, chi s'illude di poterlo catturare ed annetterlo. Sono infatti senza equivoci le sue parole all'amico comunista Pipetta, nella lettera famosa. E non valgono soltanto come profetico esorcismo contro il "compromesso storico" al quale ci stiamo avviando, ma, magari ribaltate, contro ogni strumentalizzazione anche clericale, del "prete scomodo": "Il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò con te. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene, Pipetta, quel giorno io ti tradirò".
La Chiesa, la cultura, la scuola, lo stesso dissenso, anche la rivoluzione, sono avvisate. Nell'ora della vittoria e del trionfo, cioè della prevaricazione di uno su un altro con la forza, Milani non è con nessuno.
Capitolo VII°
Voci critiche di parte laica
Gli scritti milaniani sono stati sin dall’inizio oggetto di critiche sia di parte cattolica che di parte laica (oltre che di attacchi feroci provenienti dall’estrema destra: ma di essi parleremo in un capitolo successivo).
Si sono qui volute raccogliere alcune delle voci critiche di parte laica: esse sono talvolta anche assai dure, ma -a differenza di quelle che appaiono sui fogli dell’estrema destra politica- rimangono sul piano della contrapposizione di idee e di opinioni, senza abbassarsi all’insulto personale, alla minaccia, alla denigrazione.
Il giornalista dell’Espresso Carlo Falconi interviene, a poche settimane dalla lettera ai cappellani militari della Toscana, con un articolo nel quale Milani è chiamato "comunista [...], sia pure a modo suo, e cioè senza tessera e con la fede religiosa: l’epiteto che lo classifica meglio, però, è classista. Il suo dogma sociale, infatti, è estremamente semplice: al mondo non esistono che poveri e ricchi, oppressi ed oppressori".
Ricordando poi una sua visita a Barbiana, Falconi scrive che don Lorenzo "non si curava nemmeno di attenuare il suo dogmatismo e il suo assolutismo", e rileva "l’astio, l’odio classista di cui imbeve i suoi alunni implacabilmente, ininterrottamente".
Ma è poi Falconi stesso ad attenuare il proprio giudizio, spiegando così "l’estremismo" di Lorenzo Milani: "Tutti i veri maestri e gli autentici profeti sono estremisti: scandalosamente ed eroicamente estremisti e fanatici. Solo così essi possono evitare che il tempo e la leggenda alterino il loro messaggio".
A queste critiche replicherà Enzo Forcella, scrivendo che "la carica di passione con cui don Milani denuncia le ipocrisie, i conformismi, le innumerevoli pratiche autoritarie della nostra società religiosa e civile, può essere definita "violenta". Ma è una violenza della quale, mi sembra, noi laici dovremmo rallegrarci".
Curiosamente, Forcella storpierà ripetutamente in ‘Barbiena’ il nome della parrocchia sul monte Giovi...
Chiude la polemica un successivo articolo dello stesso Falconi, il quale, pur ribadendo l’essere "inaccettabili" alcuni aspetti dell’agire milaniano (la "predicazione dell'odio classista, la sua scuola tirannicamente dogmatica"), rileva che tali "errori [...] non debbono far dimenticare l'esemplarità eccezionale d'una testimonianza pagata da anni di persona con autentica immolazione".
Ben più duro il giudizio contenuto nell’articolo a firma Carpendras, che appare su La Fiera Letteraria nel novembre del ’67.
Pur tra ripetuti apprezzamenti per la personalità "forte e coraggiosa", Carpendras scrive di Milani che "in lui, la forza dell’espressione, suppliva alla vuotaggine logica della formula" che contrappone alla società borghese il mondo dei poveri. Concludendo poi che la Lettera "è un bellissimo libro da cui si possono benissimo isolare le balordaggini politiche che l’accompagnano".
Rosellina Balbi, che scrive su la Repubblica, trova che Milani, "non cessò mai (né, essendo un prete, poteva far diversamente) di guardare agli oppressi come ai "poveri": termine, questo, cui il Vangelo conferisce una connotazione positiva. Perciò la povertà, o meglio la purezza di spirito connessa alla povertà, diventò per lui, in qualche modo, un valore da preservare".
Individua poi, assieme alla denuncia "del classismo della scuola e del linguaggio", un suo "respingere, insieme all’uso privilegiato della cultura, la cultura stessa, quasi fosse, in assoluto, un valore negativo". E nelle "provocazioni" milaniane "vi era anche il sapore nostalgico di una perduta civiltà contadina, vi era il rifiuto dello Stato moderno e delle sue istituzioni".
La Balbi conclude che i limiti suddetti, più che di Milani (il quale "non ebbe mai l’intenzione di proporre soluzioni per i problemi della società contemporanea"), sono di coloro che dalla sua esperienza "straordinaria [...] vollero attingere indicazioni che non esistevano".
IL PRETE AMARO DI BARBIANA
di Carlo Falconi
L’Espresso, Roma, n° 15, 11 aprile 1965, pag. 9
Firenze. "Non è con i telegrammi d’auguri, il regalo di una croce pastorale e le genuflessioni che si mostra l’amore al vescovo, ma piuttosto con la sincerità rispettosa, il rifiuto del pettegolezzo di sagrestia... Chiediamo all’arcivescovo che risparmi ai nostri popoli lo scandalo di un assolutismo abbandonato ormai anche dal Papa e perfino dai comunisti...". Queste singolari espressioni risalgono ad alcuni mesi fa, e precisamente al primo ottobre scorso, data di una lettera che raggiunse tutti i sacerdoti della diocesi di Firenze e che era apertamente sottoscritta da due loro confratelli: don Lorenzo Milani e don Bruno Borghi. Poche settimane fa, gli stessi sacerdoti tornarono a far parlare di sé, questa volta con due distinte lettere di protesta indirizzate ai cappellani militari toscani che, in un ordine del giorno sottoscritto l’11 febbraio scorso al termine d’un convegno regionale, avevano sprezzantemente quanto gratuitamente accusato di viltà gli obiettori di coscienza. Nella sua protesta, don Milani sostenne fra l’altro che tutte le guerre combattute dall’esercito italiano dall’Unità in poi erano state guerre di aggressione, ad eccezione della Resistenza. Ce n’era anche più del necessario perché qualcuno si affrettasse a segnalare il documento alla Magistratura perché si provvedesse d’ufficio all’incriminazione dell’autore.
L’Osservatore Romano
Pochi giorni dopo, un altro religioso fiorentino (di residenza), padre Ernesto Balducci, veniva denunciato nientemeno che per vilipendio alla religione per aver definito la Chiesa "corpo di peccatori" e accennato a Pio XII in modo da avallare la ben nota tesi della sua inerzia dinanzi ai crimini bellici nazisti. Le ragioni teologiche della denuncia pubblicate sul "Secolo" stavano ormai volgendo l’episodio al grottesco, quando, il 3 marzo, un durissimo corsivo ufficioso dell’"Osservatore Romano" fece eco alle accuse del quotidiano missino della capitale, ironizzando contro "alcuni preti che pur si dicono cattolici e che, per conformismo al non conformismo, spendono nome e parole, magari in termini di angoscia problematica, ad avallare campagne che, nell’offesa alla memoria di un grande Pontefice, hanno di mire ben altri scopi".
La nota dell’"Osservatore" si dilungava poi ad accennare a certi tentativi di dialogo, "ben diverso da quello cui esorta Paolo VI nella "Ecclesiam suam", e persino a raccoglierne in volume i vari momenti". L’allusione, estremamente trasparente, colpiva ancora una volta certi circoli del cattolicesimo fiorentino ispirati anch’essi o comunque molto legati al Balducci, e il cui leader più noto è il professor Mario Gozzini, un dirigente della editrice Vallecchi.
Che cosa sta succedendo, insomma, a Firenze? E proprio nel momento in cui manovre e pressioni tutt’altro che misteriose hanno costretto al ritiro il sindaco Giorgio La Pira? Si può davvero parlare, come qualcuno ha già fatto, di rivoluzione del cattolicesimo rosso, capeggiata da sacerdoti sediziosi e fiancheggiata da un’équipe fortemente agguerrita di laici? Oppure delle prime avvisaglie della rivolta del clero, amareggiato dalle conclusioni delusive del Concilio nei propri riguardi e deciso ormai alla riscossa?
Per rispondere a questi interrogativi occorre innanzitutto spiegare perché tra tutte le 320 diocesi d’Italia Firenze sia la sola a dar luogo a questi fenomeni d’insofferenza e di desiderio di nuovo. Tralasciando la tradizione e il carattere dei suoi abitanti, che pure hanno il loro peso, basta pensare a quel che ha significato in questo dopoguerra per il capoluogo toscano la presenza di un uomo come La Pira. Soprattutto per i cattolici ma in particolare per il clero. La Pira è stato, e molto prima di Giovanni XXIII, anche se con uno stile che poteva apparire fastidioso, la rivelazione di un nuovo spirito cristiano tollerante ed ecumenico e nello stesso tempo sinceramente impregnato di ansie di giustizia sociale. Misticismo e visionarismo si fondevano in lui alla rigidità delle strutture tomistiche, astrattismo ed estro poetico al realismo più astuto e imprevedibile. Nella Firenze di La Pira, uomini come Gozzini, cresciuto nelle fumisterie poetico-teologico-neofasciste degli "Ultimi", i gioachimisti discepoli di Papini, cambiarono decisamente rotta; e preti come don Milani scopersero la loro vera missione.
L’influenza di La Pira, però, specie dopo la sua entrata a Palazzo Vecchio, non si esaurì soltanto a promuovere queste conversioni: essa fu soprattutto importante per la piattaforma di sicurezza che offriva agli ardimenti apostolici o sociali dei preti e dei laici più coraggiosi. E’ vero che la Curia fiorentina, sotto Pio XII, aveva ricevuto ordine di controllare e tenere in freno il "sindaco santo", ma, fino alla morte del cardinale Elia Dalla Costa, il controllo fu assai blando. Don Milani poté così pubblicare le sue polemiche "Esperienze pastorali" e don Borghi far dapprima il prete operaio vero e proprio, poi il prete guastafeste nelle parrocchie borghesi cittadine.
Tuttavia, il fatto che La Pira abbia calamitato attorno a sé un padre Balducci e don Milani, un Gozzini e un don Borghi, non legittima affatto la conclusione che i ribelli fiorentini costituiscano un fronte unico e saldamente amalgamato. Al suo fianco non sono forse sempre rimasti anche uomini della più osservante e nostalgica conservazione, come Bargellini e Lisi? Del resto, per toglier di mezzo qualsiasi illusione, non c’è che da confrontare tra loro, a caso, alcuni di questi protagonisti del cosiddetto cattolicesimo rosso: o ascoltarli parlare dei loro presunti colleghi.
Influenza di La Pira
Don Milani, ad esempio, non nasconde affatto la sua avversione per l’intellettuale e borghese scolopio Balducci: un intellettuale, è pronto a concedere don Milani, che ha qualche merito d’"engagement", ma che è sostanzialmente frivolo come non può non esserlo, per lui, qualsiasi servitore degli ideali della borghesia. Padre Balducci, del resto, è più un intellettuale della parola che della penna e un volgarizzatore del pensiero teologico-sociale d’oltr’Alpe che di proprie idee. Non è forse, a Firenze e a Roma, città tra le quali fa continuamente la spola, l’onnipresente conferenziere della "haute" e l’oratore ufficiale delle grandi cerimonie cattoliche?
Curioso ma sintomatico, anche il giudizio dei prelati della curia fiorentina su padre Balducci non è molto diverso, escluso beninteso il riferimento alla borghesia. Anzi il loro è ancora più caustico. I curiali, si sa, non si lasciano neppure impressionare dal fatto che padre Balducci abbia fondato e diriga una rivista: e non già perché sia di fatto, nel contenuto, aristocraticamente esangue e tediosa nonostante il titolo avanguardistico di "Testimonianze", ma perché proprio la rivista, per via dell’"imprimatur" lo mette ancor più a loro discrezione. Per essi padre Balducci è un padre Semeria senza la sua pittoresca sciatteria, formalmente più incisivo e brillante come oratore, ma anche senza la cultura e l’impeto del barnabita, e soprattutto senza il suo entusiasmo, il suo estro e, quel che più conta, il suo cuore. Che poi, come malignano, egli sia oggi paolinista sotto papa Montini com’era prima giovanneo sotto papa Roncalli, è un fatto che non li turba. E nessuno è stato felice come loro dell’intervento dell’"Osservatore Romano".
Nonostante ciò, proprio loro, che non muovono mai un dito per aiutarlo quando si trova in difficoltà, incontrandolo od ospitandolo non sanno dove cominciare e dove finire con le cerimonie. Un pericolo che non minaccia affatto, invece, il "comunista" don Milani. Comunista, don Milani lo è certamente, sia pure a modo suo, e cioè senza tessera e con la fede religiosa: l’epiteto che lo classifica meglio, però, è classista. Il suo dogma sociale, infatti, è estremamente semplice: al mondo non esistono che poveri e ricchi, oppressi ed oppressori. E da esso, con dialettica inesorabile, deduce tutte le conseguenze. Per gli altri, s’intende, ma prima di tutto per sé, come uomo e come prete.
Poiché la sua parte nel mondo sono i poveri, egli si è fatto povero e vive da povero, solidarizzando solo coi poveri. Agli altri, i ricchi, i borghesi e i loro servi, specie se intellettuali, non riserva che disprezzo e rancore (gli anatemi e le fruste del Vangelo). E tra i poveri, più per il loro domani che per l’oggi, s’è scelto la missione del maestro dei loro figli, naturalmente gratuita, ma soprattutto con metodi e programmi che sono agli antipodi di quelli della scuola borghese. Infatti niente di libresco e di vanamente erudito ha posto nel suo insegnamento. La sua vuol essere, ed è, una scuola di vita, dove tutta la vita, quella di ieri ma soprattutto di oggi, vien messa continuamente in discussione sotto tutti i suoi aspetti e con tutti i suoi problemi, persino quelli che sono ritenuti sorpassare gli interessi e le capacità dei ragazzi.
Deve il galèro ai ribelli
A San Donato prima, e ora a Barbiana, don Milani passa l’intera giornata, comprese le brevi pause per le merende e per il pranzo, coi suoi ragazzi delle medie. Parrocchiani e ospiti sono ricevuti da lui davanti alla scolaresca. Quando, dietro suo invito, qualche settimana fa, andai a trovarlo, lo trovai appunto seduto a un’estremità della lunga tavolata a ferro di cavallo, che sostituisce i comuni banchi scolastici. Mi chiese subito di parlare ai ragazzi delle mie esperienze e del mio lavoro: potevo esporre le mie idee anche più assurde o più intime: ad esempio, parlare del come avevo perduto la fede.
Ai suoi primi commenti, capii subito ch’egli s’era già fatto di me un’idea tutta sua e che non era affatto deciso a modificare. Non si curava nemmeno di attenuare il suo dogmatismo e il suo assolutismo. Col fascino dispotico della sua dialettica egli è riuscito a spersonalizzare completamente il pensiero dei suoi allievi, sostituendovi il proprio. Quindi non si curava neppure di rispondere alle obiezioni. Tuttavia l’aspetto che mi sgomentò di più nel suo insegnamento non è il fanatismo, bensì l’astio, l’odio classista di cui imbeve i suoi alunni implacabilmente, ininterrottamente. Mi domandavo dove fosse il sacerdote in una predicazione così partigiana e violenta e se avevano del tutto torto i suoi superiori a isolarlo come facevano.
Ma l’estremismo di don Milani ha un suo perché, anzi un suo drammatico perché. Tutti i veri maestri e gli autentici profeti sono estremisti: scandalosamente ed eroicamente estremisti e fanatici. Solo così essi possono evitare che il tempo e la leggenda alterino il loro messaggio. Oggi, comunque, i discepoli di don Milani, per lo meno tra le file del clero, si contano sulle dita. I suoi confratelli che hanno osato firmare il suo appello del 1. ottobre all’arcivescovo Ermenegildo Florit sono stati poco più d’una decina. E’ vero che quelli che avrebbero voluto farlo erano molti di più: ma non è coi pavidi e coi velleitari che si fanno le rivoluzioni.
Neanche a Firenze, dunque, il clero insorgerà. Nessuno del resto l’ha richiamato a un programma organico e preciso. Qualche puntura di pungolo non basta. E non basta soprattutto ora che la caduta di La Pira gli ha tolto un grande scudo e l’offerta della porpora ha confermato l’arcivescovo nella bontà della sua linea tradizionalista. Con molta probabilità monsignor Florit non avrebbe mai avuto il galèro senza i disappunti datigli dai suoi preti e laici "ribelli". La sua statura sia di vescovo che di dotto è da amici e nemici riconosciuta come assolutamente modesta. Egli non è, tutto sommato, che un coscienzioso amministratore. Nessuna mortificazione più grave poteva essere inflitta a Firenze che quella di averle assegnato un burocrate certamente onesto e retto ma di scarsa iniziativa e di nessuna fantasia.
Ai primi dello scorso febbraio i fedeli di Ravenna e di Cervia si sentirono leggere nelle chiese una lettera pastorale del loro arcivescovo, monsignor Salvatore Baldassarri, e dei loro sacerdoti. Quando invece don Milani e don Borghi chiesero a monsignor Florit di realizzare il dialogo coi suoi parroci, egli non trovò di meglio che invitare i due insubordinati ad abbandonare la diocesi. Non poteva immaginare che la salvezza della disciplina non può mai essere confusa con la conquista dei cuori.
LA VIOLENZA PACIFICA DI DON MILANI
di Enzo Forcella
L’Espresso, Roma, n° 16, 18 aprile 1965
Vedo con sorpresa che l'amico Carlo Falconi condivide i giudizi su don Lorenzo Milani espressi a più riprese da tutta la stampa clerico-moderata italiana.
Nel servizio che gli ha dedicato ("Il prete amaro di Barbiena", "L'Espresso" n. 15) Falconi ci descrive l'autore di "Esperienze pastorali" come un uomo fanatico e intollerante, imbevuto d'astio e di odio di classe, corruttore dei suoi giovani allievi che vengono da lui sottoposti "implacabilmente e ininterrottamente" ad una specie di lavaggio del cervello. Un soggetto, infine, poco raccomandabile che i suoi superiori "non hanno del tutto torto a isolare". L'eufemismo, in questo caso, mi sembra trasparente: dal ritrattino risulta giustificato non solo l'isolamento ma anche un eventuale intervento del Sant'Offizio e magari la condanna della magistratura, nel procedimento penale al quale don Milani è attualmente sottoposto.
Ignoro in base a quali sconvolgenti risultanze Falconi sia giunto a così drastiche conclusioni. Infatti, pur essendo stato a Barbiena e avendo avuto occasione di parlare a lungo con il sacerdote e i suoi scolari, egli non ci dice nulla di come è andata la conversazione. Ci dice soltanto d'essere stato invitato ad esporre liberamente le sue idee "anche più assurde e più intime: ad esempio, parlare del come avevo perduto la fede" (un tema che può essere intimo, ma non certo assurdo, bastava dicesse "sono affari miei" e tutto sarebbe stato risolto), e d'aver capito subito con chi aveva a che fare. Come procedimento d’informazione giornalistica mi sembra discutibile.
Io non sono mai stato a Barbiena e non posso quindi portare nessuna testimonianza diretta sui metodi pedagogici di don Milani. Ma conosco i suoi libri e la sua azione, ho letto i testi della polemica sull'obiezione di coscienza e i cappellani militari (compresa la famosa lettera di protesta dove, secondo Falconi, "ce n'era anche più del necessario perché qualcuno s'affrettasse a segnalare il documento alla magistratura per l'incriminazione d'ufficio") e debbo dire che non vi ho trovato nulla che giustifichi, neppure in parte, il tono di scandalo, di riprovazione e d'ironica sufficienza che ispira tutto lo scritto in parola. Al contrario, vi ho trovato molti motivi di meditazione e d'ammirazione.
Certo, la carica di passione con cui don Milani denuncia le ipocrisie, i conformismi, le innumerevoli pratiche autoritarie della nostra società religiosa e civile, può essere definita "violenta". Ma è una violenza della quale, mi sembra, noi laici dovremmo rallegrarci. Anche perché si tratta d'una "violenza" di tipo particolare: "Almeno nella scelta dei mezzi", scrive tra l'altro don Milani ai cappellani militari, "sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere. Le uniche armi che approvo sono nobili e incruente, lo sciopero e il voto".
DIFFICILE CRITICARE DON MILANI MA
NON BISOGNA RINUNCIARVI PER QUESTO
di Carlo Falconi
L’Espresso, Roma, n° 17, 25 aprile 1965
Mi duole molto d'aver deluso Forcella col mio articolo, non già su don Milani, ma sulla situazione in genere della diocesi oggi ritenuta più esplosiva d'Italia, quella di Firenze (e lo preciso perché l'argomento spiega la particolare impostazione del mio scritto che non poteva aderire alla metodologia da lui auspicata). Ma debbo dirgli anzitutto che il mio viaggio-inchiesta a Firenze risale ai primi di febbraio, a una data, cioè, in cui, se non erro, la stampa "clerico-moderata" non aveva ancora attaccato don Milani. E che, nonostante ciò, se avessi dovuto elaborare subito il mio "servizio", non avrei detto nulla di diverso, quanto al contenuto, da quello che ho scritto più tardi. Se mai il ritardo di alcune settimane ha giovato a depurare e a distaccare l'asprezza di certe impressioni.
Debbo aggiungere, in secondo luogo, che avrei potuto riferire altri particolari e che non l'ho fatto proprio per evitare le conseguenze che Forcella, forse un po' ingenuamente, paventa. (Ma crede davvero che la Curia di Firenze, come del resto ogni altra Curia, abbia bisogno delle indiscrezioni della stampa per capire e giudicare i propri sottoposti?) Avevo detto l’essenziale di quanto mi era risultato e sul rimanente potevo stendere un velo. L'essenziale però dovevo dirlo, fosse pure, e a me per il primo (altro che ironica sufficienza!), doloroso e irritante.
Io non scrivo a tesi e credo fermamente che la verità, anche amara, serve sempre meglio, prima o poi, delle pie menzogne o dei falsi utilitari. Soprattutto ai laici, che non hanno bisogno di miti spuri o artefatti o ritoccati. Se Forcella trova in quello che ho riferito su don Milani "molti motivi di meditazione e d'ammirazione", posso comprendere perché si stupisca del mio dissenso; ma dubito che punti vantaggiosamente, valendosi d’una carta del genere. Per contrapporre utilmente ai cattolici conservatori e soprattutto alle autorità ecclesiastiche conservatrici un tipo di sacerdote autentico e contemporaneamente aperto agli ideali laici (non necessariamente infetti di "tabe laicista"), un tipo di sacerdote personificatore o meglio protagonista autorevole del dialogo, ecc., non ci si può valere d'elementi discussi e contestati, soprattutto sul piano ideologico. O bisogna onestamente riconoscere i loro limiti.
Ci si può battere per la tesi del "Vicario" e non avere nessuna stima del valore letterario del "Vicario". Si può essere rigidamente ostili all'antisemitismo e riconoscere la validità degli argomenti teologici della tesi di monsignor Carli sul deicidio degli ebrei (sulla base s'intende, ammessa ma non concessa, delle fonti neotestamentarie). E allo stesso modo, si può esser d'accordo sulla portata del pronunciamento di don Milani senza sposarne tutte le singole posizioni, specie quelle obiettivamente inaccettabili non solo da un cattolico ma anche da un laico (oltre alla predicazione dell'odio classista, la sua scuola tirannicamente dogmatica, che è la parodia più raccapricciante del metodo socratico cui vorrebbe ispirarsi). Queste sono alcune non comode mie posizioni, ma che non ho ragione d'abbandonare solo perché poco comode. Nell'ormai lontano 1958, io ho recensito nell’"Espresso" e altrove l'unico libro di don Milani: "Esperienze pastorali", accennando sin d'allora a questi limiti critici della sua testimonianza. Ma confesso che ritenevo le espressioni più spinte di quel libro degli eccessi stilistici inutilmente pericolosi e provocatori (infatti il Sant'Offizio non attese le mie considerazioni per intervenire). Quello che mi ha spaventato a Barbiana è stato la scoperta che in realtà già da allora doveva trattarsi di ben altro.
Comunque, l’intervento dell'amico Forcella mi è gradito, anche se un po' troppo burbero, perché mi offre l'occasione d'una riparazione. Nella prospettiva dell'articolo, gli aspetti positivi della testimonianza di don Milani rimangono senz'altro sopraffatti da quelli negativi. E questo è contrario anche ai miei intimi sentimenti verso l'eroico parroco. Gli errori che gli si possono imputare non debbono far dimenticare l'esemplarità eccezionale d'una testimonianza pagata da anni di persona con autentica immolazione. Del resto gliene ho dato atto ripetutamente e proprio negli ultimi mesi commentando dapprima la sua lettera sul dialogo con l'arcivescovo (del l. ottobre 1964), poi, lo scorso febbraio, dopo la mia visita a Barbiana, la sua lettera ai cappellani militari di Toscana, definendola "degna d'affissione" su tutti i bollettini diocesani della penisola.
ANCORA LETTERATURA
di Carpendras
La Fiera Letteraria, Milano, 2 novembre 1967, n° 44
I ragazzi di Barbiana crescono. Hanno vinto un premio letterario, insegnano, affrontano professori e letterati in pubblici dibattiti. Sono ormai dei personaggi del nostro mondo culturale, così come lo era, volente o no, il loro maestro, don Lorenzo Milani.
Li ho conosciuti, li ho trovati meno convincenti degli anonimi autori di "Lettera a una professoressa". Bisogna confessarlo: a vederli e a sentirli parlare, l’incanto del libro scompare. E subentrano molti dubbi.
Una delle prime regole del metodo didattico di don Milani era la franchezza. I suoi ragazzi lo usano e non si risparmiano quando si tratta di colpire chi non la pensa come loro. Con la stessa lealtà dovrebbero sopportare le critiche. Invece le respingono in blocco, nemmeno le ascoltano. Da cosa dipende questa insofferenza? Io non credo, come sostengono i suoi amici e zelatori, che sia tutta colpa dell’età.
Don Milani era un uomo di temperamento eccezionale, di forti passioni che davano sapore di verità anche ai paradossi. Non amava la società occidentale basata sulla competizione e sulla disuguaglianza economica e non le risparmiava i suoi sarcasmi. In realtà credo che non amasse nessuna società costituita.
Era una personalità forte e coraggiosa. Anche dissentendo da lui se ne sentiva il fascino. Ma il suo stile brusco fino all’insolenza trasferito in quelli che fino a ieri erano dei docili attori in mano a un autorevole regista, stona, diventa fastidioso.
Ho l’impressione che questi ragazzi non siano così genuini, "autentici", come si pretende, ma che al contrario si sentano dei "personaggi" che devono recitare una parte. Anzi ho il sospetto che quando attaccano i loro interlocutori lo facciano, indipendentemente dalla materia in discussione, perché avevano deciso in partenza di fare così. E’ la parte che lo esige.
E nella parte dei ragazzi di Barbiana è scritto che essi devono essere "a priori" in contrasto contro gli intellettuali, il partito dei laureati che parla una lingua ch’essi non capiscono, una lingua falsa, artificiosa, vuota. Si parli loro con la massima chiarezza, usando le parole più usuali: diranno sempre che non capiscono.
Alla lunga diventa una storia noiosa. Gli argomenti sono sempre gli stessi: da una parte ci sono loro, i poveri, che conoscono la vita e i bisogni reali del popolo, dall’altra gli intellettuali che sanno soltanto fabbricare parole a vuoto, al servizio di chi li comanda. Un circolo da cui non si esce.
Ma chi sono, in pratica, questi ragazzi? Hanno scritto un libro, e per di più un libro di quelli che si propongono di cambiare le cose. Dunque sono degli intellettuali. Anzi, più intellettuali degli altri. Li distingue non la categoria, ma il diverso impegno; il grado di cultura, non la nascita.
E poi che senso ha contrapporre alla società borghese con la sua corte di "intellettuali cretini", il mondo dei poveri che reclamano, in quanto maggioranza (e si direbbe incarnazione della verità) il potere? Queste sono parole (il potere ai poveri) che solo un artista, una spiccata individualità come don Milani, poteva dire senza far ridere. In lui, la forza dell’espressione, suppliva alla vuotaggine logica della formula. Perché chi sono "politicamente" parlando i poveri? E come immaginano di gestire il potere?
Di poveri, anche nel mondo neocapitalista, ce ne sono moltissimi. Nessuno ne ignora l’esistenza. Ciò che si nega è che i poveri, in quanto tali, costituiscano una realtà politica. I poveri, o per essere più esatti tutti coloro che vivono, come i contadini, ai margini della cosiddetta "società affluente" formano un mondo circoscritto che nella storia contemporanea europea non può avere che un ruolo passivo. Considerarli protagonisti dell’avvenire non è nemmeno un’utopia. E’ letteratura.
Quando uscì "Lettera a una professoressa", ci fu chi scrisse che solo degli "intellettuali cretini" avrebbero potuto accoglierlo come un bel libro, pieno di verità sulla scuola e la lingua che vi si usa, rifiutandone però l’alto significato politico e rivoluzionario. Accetto la qualifica. Continuo a sostenere che "Lettera a una professoressa" è un bellissimo libro da cui si possono benissimo isolare le balordaggini politiche che l’accompagnano. Di più: l’esperienza di don Milani ha raggiunto, con quelle pagine, la sua conclusione. I ragazzi di Barbiana non potranno aggiungervi gran cosa. Insistendo su certi temi, riusciranno solo a fare della letteratura. Ma questa volta, della cattiva letteratura.
MA LA POVERTÀ È UN VALORE?
di Rosellina Balbi
la Repubblica, Roma, 26-27 giugno 1977
Scrive in questa stessa pagina Oreste Del Buono che è molto difficile, per chi si trovi ad incrociare il cammino di un uomo eccezionale, intuirne la futura grandezza. Ma è forse altrettanto difficile, una volta riconosciuta la grandezza di un uomo, guardare a lui senza farsi condizionare dalla suggestione del mito.
Io non so se don Lorenzo Milani abbia avuto dei limiti sul piano del ministero pastorale. Probabilmente non ne ebbe; e si tratta comunque di un giudizio che qui non interessa. Interessa invece soffermarsi sui risvolti sociali e culturali della sua riflessione e del suo impegno quotidiano. Su questo piano, parlare di limiti e di contraddizioni non deve essere interpretato in senso riduttivo.
Così l’[o]rrore e la ribellione di fronte all’ingiustizia spinsero don Milani a prendere costantemente posizione, insomma a "schierarsi". Ma nello stesso tempo egli non cessò mai (né, essendo un prete, poteva far diversamente) di guardare agli oppressi come ai "poveri": termine, questo, cui il Vangelo conferisce una connotazione positiva. Perciò la povertà, o meglio la purezza di spirito connessa alla povertà, diventò per lui, in qualche modo, un valore da preservare, quando non assunse addirittura il significato di una condizione naturale, immutabile. Vi è un passo di Lettera a una professoressa in cui il problema dei "ragazzi di Barbiana" (e di quelli come loro) viene appunto assimilato al problema negro, e la "diversità" si trasforma, come per il Black Power, in motivo di orgoglio e di autosegregazione: "Stokely Carmichael è stato in prigione ventisette volte. Durante l’ultimo processo dichiarò: "Non c’è un solo bianco del quale mi fidi". Quando un giovane bianco che aveva speso la vita intera per la causa dei negri, gli gridò: "Veramente nemmeno uno, Stokely?", Carmichael si voltò verso il pubblico, guardò l’amico e gli disse: "No, nemmeno uno". Se il giovane bianco s’è impermalito, dà ragione a Carmichael. Se è davvero con i negri, deve inghiottire, ritirarsi in disparte e continuare ad amare".
Ancora: don Milani non si stancò di denunciare, con giustificata violenza, il classismo della scuola e del linguaggio. Ma il suo sdegno lo trascinò talvolta a respingere, insieme all’uso privilegiato della cultura, la cultura stessa, quasi fosse, in assoluto, un valore negativo, indipendente dai processi storici. Cito ancora da Lettera a una professoressa: "Non dirò mai ai miei scolari che "inaugurare" vuol dire "augurare male". C’è scritto nella nota. Ma è una bugia. L’ha inventato il Foscolo perché non voleva bene ai poveri. Non ha voluto far fatica per noi". Oppure: "Nel suo programma di italiano ci stava meglio il contratto dei metalmeccanici. Lei signora l’ha letto? Non si vergogna? E’ la vita di mezzo milione di famiglie". Semi, questi, destinati a germogliare. E non tutti i più recenti germogli, credo, sarebbero piaciuti a don Milani.
Nelle sue provocazioni, vi era certamente il proposito di frustare le false coscienze, di costringere le intorpidite "anime belle" al brutale confronto con le cose. Ma vi era anche il sapore nostalgico di una perduta civiltà contadina, vi era il rifiuto dello Stato moderno e delle sue istituzioni: come quando don Milani affermava che la scuola da lui sognata "non può essere fatta che per amore (cioè non dallo Stato)" e dunque "non esisterà mai altro che in una minuscola parrocchia di montagna". O quando esprimeva, con i ragazzi di Barbiana, la propria sfiducia nel Parlamento ("discussioni interminabili tra parti che sembravano opposte e erano uguali...") e nei partiti ("le segreterie... sono saldamente in mano ai laureati. I partiti di massa non si differenziano dagli altri su questo punto...". E ancora: "E’ fino essere "coi poveri". Cioè non proprio "coi poveri", volevo dire "a capo dei poveri"...").
E’ vero anche che don Milani non ebbe mai l’intenzione di proporre soluzioni per i problemi della società contemporanea. Per cui, più che dei suoi limiti, bisognerebbe forse parlare dei limiti di coloro che da quella pur straordinaria esperienza umana e sacerdotale vollero attingere indicazioni che non esistevano.