Capitolo X°
Pensieri su Milani all’alba del nuovo millennio
In questo capitolo conclusivo sono stati raccolti ben pochi articoli. Si tratta di scritti relativamente recenti, che abbiamo segnalato in quanto ci sembrano offrire, in vario modo, spunti originali alla discussione ed al dibattito.
Il sociologo Andrea Spini sceglie già nel titolo del suo articolo, apparso nel gennaio del ’98 su Il Grandevetro, rivista bimestrale di politica e cultura diretta da Luciano Della Mea, di riallacciarsi al libro di Pecorini, per sviluppare poi nuovi percorsi e rivolgersi (e rivolgerci...) nuovi ed inquietanti interrogativi.
L’autore prende le mosse dalla domanda "solo apparentemente peregrina" del titolo per affermare che colui che intenda ricostruire la biografia del priore, deve partire "da quel suo continuo refrain sul sacramento della confessione (‘per il quale, quasi solo per quello sono cattolico’) e poi cercare di cogliere la rete di effetti prodotti dalla sua azione e il loro significato". Spini considera "scorretto" giudicare l’interpretazione socio-politica del mondo da parte di Milani a prescindere dal suo problema etico-religioso: questo, afferma Spini, porta a scambiare i suoi giudizi sul mondo per analisi socio-economiche e politiche. E allora, scrive "sarebbe forse il caso […] di iniziare a distinguere tra la testimonianza e la proposta politica donmilaniana".
Per questo autore, "Esperienze pastorali non è, quando viene pubblicato, che uno dei segni della totale incomprensione [da parte di Milani; n.d.MM] delle trasformazioni avvenute nella società italiana dalla fine della guerra", nel momento in cui sta iniziando ad affermarsi un "sistema di consumi allargato". La "configurazione politico-sociale della scuola di Barbiana" è "in una certa misura" mutata rispetto all’esperienza di Calenzano: "ciò che in Esperienze pastorali poteva essere scambiato […] per una provocatoria presa di posizione nei confronti della scristianizzazione del mondo, a Barbiana diviene la regola teorizzata e perseguita".
Conclude infine Spini: "Dimenticare don Milani, allora? Non possiamo, almeno finché non riusciremo a fondare la nostra avventura non sulla Colpa ma sulla Responsabilità, smettendo definitivamente di attendere la Salvezza da una Parola".
Intervenendo a latere di un dibattito che vede come protagonisti Giorgio Pecorini e Michele Ranchetti, svoltosi sulle pagine de Il Manifesto con riguardo al significato della figura del priore di Barbiana, don Enzo Mazzi ricorda, come, sin dai tempi del seminario fiorentino, nell’immediato dopoguerra, lui e Lorenzo Milani, "rivoluzionario con la tonsura", scoprirono "i valori evangelici testimoniati dalla gente del popolo, dai cosiddetti lontani, dagli scomunicati". E come ciò fosse causa di ossessionanti sensi di colpa, di una "distruttiva angoscia del peccato", da cui don Milani "non si liberò mai totalmente": essi erano "preparati a disubbidire e a educare alla disobbedienza verso il potere civile ingiusto; ma non verso il potere ecclesiastico ingiusto".
Dopo aver "legato insieme Don Milani, il Concilio, il ’68", don Mazzi conclude che "Lorenzo Milani resta tanto attuale perché è in mezzo a noi, limitato e contraddittorio al pari di tutti noi [...], ma anche in cammino insieme con noi".
Un breve scritto di Adriano Sofri chiude questa antologia.
Nel segnalare il libro di Pecorini I care ancora, tratto dal carteggio tra Milani e monsignor Loris Francesco Capovilla, Sofri ricorda episodi già in parte noti, come la visita del priore ai musei vaticani nel maggio ’62, assieme ai ragazzi della scuola di Barbiana.
La lettera di don Lorenzo a monsignor Capovilla, che segue e commenta la visita, mette in luce, ancora, due contrapposti ‘classismi’: quello di Milani, che non nasconde il proprio disgusto per "un oppressore in marsina e cilindro con moglie letteralmente coperta di gioielli"; e quello, opposto e speculare, ma forse un po’ meno ‘cristiano’, degli impiegati vaticani, sprezzanti e "insensibili di fronte a ragazzi di montagna, sensibili solo alle contesse tinte [truccate, N.d. MM] e ingioiellate.
All’amico Adriano, il quale al momento in cui viene dato alle stampe il presente volume è tuttora sequestrato nel carcere pisano di Don Bosco, gli auguri di tornare presto, prestissimo, a riabbracciare i propri cari.
Lasciando da uomo libero -almeno per quanto oggi lo si possa essere nel nostro disgraziato e pur amato Paese- quelle celle che anche l’autore di queste note, nel lontano ’68, e sia pure per poche settimane, ha avuto ‘l’onore ed il piacere’ di apprezzare da vicino.
LA CUPOLA DEL TEMPIO
Il dibattito sulla figura di don Milani
è avulso dal contesto storico in cui è vissuto
di don Enzo Mazzi
Il Manifesto, Roma, 18 giugno 1997, pag. 26
Due storici polemizzano sull'eredità culturale e religiosa del priore di Barbiana. In realtà contrapporre dissenso cattolico e testimonianza di Don Milani può portare fatalmente fuori strada: un unico grande processo storico lega infatti fra loro esperienze che a prima vista sembrano lontane
I modelli dominanti sia della storiografia che della informazione si sono laicizzati solo nominalmente. Di fatto restano per gran parte interni all'orizzonte mitico: gli dèi fanno la storia, mentre le persone comuni sono sciami di formiche senza importanza. Le uscite di Avvenire e del Corriere della Sera su don Milani ne sono un esempio assai chiaro. Vi si leggono frasi del tipo: "Il profeta di Lettere a una professoressa non piace più alla sinistra... mentre la Chiesa lo riscopre", "Voltafaccia. Ora la sinistra si divide su don Milani". Tutto questo perché due storici polemizzano fra loro nelle pagine del manifesto sul significato della figura del priore di Barbiana; uno Michele Ranchetti, vuol riportarlo fra noi comuni mortali, mostrandone anche limiti e contraddizioni, mentre l'altro, Giorgio Pecorini, è tutto teso a "misurare la distanza che separa le sue scelte dalle nostre".
Don Milani si rigira certamente nella tomba, a vedere "la sinistra" identificata con due intellettuali e "la Chiesa" ridotta a qualche zuccotto rosso! Lui che tanto si è impegnato e ha pagato perché gli umili dal buio emergessero a protagonisti della storia. Ma l'impegno dei tanti "don Milani" non è stato invano. Due soli esempi: in Francia è nato di recente il movimento "Nos somme la gauche" (Siamo la sinistra), espresso da singoli, associazioni, riviste e organismi di varia natura per affermare il protagonismo della gente comune e per avvicinare l'ufficialità della sinistra alla vita concreta; in Austria prima, con più di mezzo milione di adesioni, ed ora in tutto l'Occidente, Italia compresa, è esploso il movimento "Noi siamo Chiesa" per dare voce all'emergere di una consapevolezza nuova del Popolo di Dio.
Solo personaggi
Mi sembra inoltre che questo concentrarsi sulla figura di don Milani, quasi togliendolo dal contesto storico in cui è vissuto e ponendolo sul tavolo anatomico, si collochi in quella visione, tutt'ora dominante, della storia, che si basa sull'emergere di fatti e personaggi. E' la storia fatta di eroi e di martiri, di santi e di demoni, di vittorie e di sconfitte. In quanto essa pretende di essere esclusiva, è profondamente carente. Ignora o sottovaluta i processi profondi, frantuma il divenire storico, isola personaggi e avvenimenti, esclude la rilevanza della quotidianità e l'apporto delle persone comuni dette appunto i "senza storia".
Si può invece basare il senso della storia più sul convergere che sull'emergere. Nel far questo, il timore è che fatti e personaggi spariscano nell'indistinto divenire. Ma non è così anzi sono meglio valorizzati nella loro stessa individualità, in quanto centrati da fasci di luce provenienti dai processi vitali. A chi serve, ad esempio, porre in contrapposizione don Milani e il "dissenso", la produttività ecclesiale e politica della testimonianza di don Milani contro la presunta sterilità delle altre esperienze di dissenso?
Chi punta sulla contrapposizione che ne sa del travaglio infinito con cui quello che viene definito "dissenso cattolico" (già l'appellativo è tendenzioso perché punta a connotare in negativo esperienze positive e creative) si è sempre confrontato con il problema della fedeltà istituzionale-ecclesiale? In realtà un unico grande processo storico lega fra loro esperienze che un'analisi superficiale porta a ritenere lontane.
Quando, nell'immediato dopoguerra, studiavamo teologia nel seminario fiorentino, la nostra ansia intellettuale, la tensione morale e la ricerca di fede erano tutte protese a uscire dalla prigione della sintesi sacrale del medioevo, evitando però l'abbraccio mortifero di una modernità che aveva sì riaperto lo spazio dell'autonomia e della libertà ma, per estrema contraddizione, aveva anche sottomesso il mondo al clima di terrore della guerra totale.
Valori evangelici
La cupola del tempio, imponente utero materno, non racchiudeva più i cuori e le menti dei giovani seminaristi. Avevamo bisogno di volare alto. Ma la cupola di fuoco della bomba si presentava come un approdo altrettanto oppressivo. Fra questi poli, simbolicamente espressi dalle due cupole, nasceva una appassionata ricerca di sintesi nuove, di tentativi inediti. Da qui nasce, credo, anche la duplicità di Milani: rivoluzionario con la tonsura.
Negli interminabili pomeriggi di una scuola teologica che chiedeva solo di imparare a memoria testi vecchi di oltre mezzo secolo, scoprimmo i valori evangelici testimoniati dalla gente del popolo, dai cosiddetti lontani, dagli scomunicati. Fu una scoperta a tavolino, sulla base di esperienze e letture più o meno proibite o sospette, come gli scritti di don Mazzolari o le pubblicazioni di teologia teorica e pratica che venivano d'Oltralpe, ad esempio dalla Francia dei preti operai e delle "parrocchie missionarie". Lorenzo Milani era in prima fila in questa ricerca.
L'angoscia del peccato
E nacque in noi il bisogno di immergersi in quel mondo per evangelizzarlo dal didentro e al tempo steso per essere evangelizzati. Con un tale desiderio di incarnazione nel "mondo dei poveri", uno dopo l'altro uscimmo di seminario. Tutti però eravamo ossessionati dal senso di colpa. Nel fondo, forse nell'inconscio, restava l'intento di salvare il mondo dal dominio del peccato. L'angoscia del peccato e la paura della privazione di Dio, temporale e soprattutto eterna, alimentavano una obbedienza assoluta verso il potere ecclesiastico, che noi stessi del resto incarnavamo nei confronti dei fedeli. Al confessore affidavamo anche quotidianamente il nostro peccato. Egli era la nostra ancora di salvezza "definitiva". Oltre di lui l'insostenibile angoscia. Eravamo preparati a disubbidire e a educare alla disobbedienza verso il potere civile ingiusto; ma non verso il potere ecclesiastico ingiusto. Questo aveva le chiavi della nostra salvezza eterna e della salvezza del mondo, compreso il mondo dei poveri. Don Milani non si liberò mai totalmente da tale distruttiva angoscia del peccato e del perdono. Forse lì sta anche il segreto della sua conversione al cattolicesimo. Il rapporto diretto col biblico Dio, giusto, onnipresente e onniveggente, è capace di procurare sofferenze psicologiche inaudite: "chi vede Dio muore" dice la Bibbia. La mediazione della Chiesa che può dare il perdono e lavare il peccato, attenua l'angoscia e rende più accessibile il confronto con Dio. Si può protestare anche duramente contro il potere ecclesiastico ma alla fine, davanti al potere delle chiavi della salvezza totale e del perdono "urbi et orbi", non si può fare a meno di piegare il capo.
Altri di noi impararono dalla gente e con la gente a guardare con più serenità al giusto senso del peccato e del perdono e soprattutto a sganciarlo dalla mediazione esclusiva del potere ecclesiastico. Ci trovammo immersi in un crogiolo che andava ben oltre la nostra immaginazione e i nostri progetti. Il boom della industrializzazione, l'inurbamento e lo sviluppo dei media avevano rotto i compartimenti stagni e creato le premesse per un generale rimescolamento delle carte.
Nel segno dei poveri
Ci accorgemmo ben presto, già alle prime esperienze di pratica pastorale, che non si trattava solo di una questione di preti, di Chiesa o di Vangelo. La società intera era investita da una trasformazione profonda e ambigua. La posta in gioco era molto alta perché quel crogiolo aveva due possibili sbocchi, corrispondenti ai due poli della realtà in movimento. Uno sbocco, che ritenevamo senza ombra di dubbio drammaticamente distruttivo, era quello del consolidamento della unificazione del mondo sotto il dominio della borghesia, nel segno del prepotere della tecnica, del danaro, della violenza, del terrore; l'altro sbocco, che giudicavamo positivo e per il quale ci dovevamo impegnare, era l'unificazione del mondo nel segno dei poveri, non come autarchia delle classi popolari, ma come intreccio e incarnazione delle migliori energie umane, culturali e religiose, nel mondo dei poveri. Bisogna scommettere la vita intera e la stessa fede.
Ed è quello che tentammo di fare, giovanissimi preti, chi in fabbrica, chi nelle parrocchie, perseguendo esperienze che insieme a tante altre analoghe avrebbero preparato e alimentato la rivoluzione copernicana del Concilio e la rivoluzione culturale e sociale del '68.
Avete udito la bestemmia? Ho legato insieme Don Milani, il Concilio, il '68! Ma con una tale rigorosa globalità storica l'esperienza di Don Milani è valorizzata come uno dei segnali di orientamento e di senso, uno dei segni di un grande flusso positivo in un processo profondo di trasformazione della società e della vita.
Tale flusso positivo continua tutt'ora adattandosi agli anfratti della storia. Lorenzo Milani resta tanto attuale perché è in mezzo a noi, limitato e contraddittorio al pari di tutti noi, come suggerisce anche la puntuale testimonianza di Ranchetti, ma anche in cammino insieme con noi.
DON MILANI
CHI ERA COSTUI?
di Andrea Spini
Il Grandevetro, S. Croce sull’Arno (Pisa), dicembre 1997-gennaio 1998, n° 140, pagg. 22-23
Ad aprile di quest’anno erano 3.569 i titoli degli interventi italiani (saggi, articoli, filmati) dedicati a don Lorenzo Milani dal 1958; profeta, il termine più frequente per definirlo, da quando per la prima volta fu usato da Gianni Rodari in un articolo dell’Unità del 2 ottobre 1958. In quell’occasione, Rodari scriveva del sacerdote "Angelo Milano, che ha addirittura scritto un libro (con prefazione di un vescovo) per polemizzare contro la concezione attivistico-politica-dopolavoristica della parrocchia". Si trattava, com’è noto, di Esperienze Pastorali, prefato dall’Arcivescovo di Camerino Giuseppe D’Avack.
Naturalmente, a seconda di chi ha scritto, profeta è sempre aggettivato: falso, odioso, ammanettato, violento, dimenticato, disarmato, eretico, obbedientissimo, ribelle, attuale, scomodo.
A profeta, vanno aggiunti i termini di comunista, prete rivoluzionario, apostolo, santo, omettendo gli insulti che nelle diverse occasioni, ma soprattutto dopo la pubblicazione della Risposta ai cappellani militari (1965), lo hanno gratificato nella sua breve vita.
Dunque, tutto è stato detto e scritto, nulla escluso. Eppure, a trent’anni dalla morte, c’è ancora chi si domanda: Don Milani, chi era costui?
Domanda solo apparentemente peregrina. In realtà, quando si vada a rileggere la migliore monografia scritta sul prete di Barbiana non è difficile accorgersi che la domanda di Giogio Pecorini manca ancora di risposte soddisfacenti. Sulla possibile ragione di questa insoddisfazione, possiamo forse generalizzare quanto ebbe modo di scrivere Ghirotti, ricordando, dopo la morte, l’incontro/scontro avuto col prete di Barbiana: "nella mia memoria, don Lorenzo rappresenta un morto irrequieto, che non lascia vivere in pace: Me lo porto dietro così come un aculeo, un dubbio grave della coscienza: sono questi, dopo tutto, i morti che non muoiono mai".
"Aculeo", "dubbio grave della coscienza" che, appunto, sembrano essere comuni a quanti si sono interrogati (e continuano a interrogarsi) sul senso e il significato dell’opera donmilaniana, rendendone impossibile la morte definitiva, come, in due successivi articoli sulla Repubblica, si augurava nel 1992 Sebastiano Vassalli. "Maestro improvvisato e sbagliato", "manesco e autoritario", per Vassalli, infatti, don Milani con Lettera a una professoressa aveva compiuto solo "un atto di calcolata falsificazione della realtà e di violenta demagogia", e se, continuava nel secondo articolo, con la ragione non si può "aprire gli occhi a chi sogna e vuole continuare a sognare", allora è bene che il "mito" lo si lasci dov’è, finché il tempo non lo cancelli.
Insieme a Berardi, dal cui saggio Lettera a una professoressa. Un mito degli anni Sessanta, peraltro aveva preso spunto per il suo violentissimo attacco al mito don Milani, Vassalli è stato, negli anni più recenti, forse l’unico a metterne in discussione radicalmente l’opera. Per il resto, sembra che quanto Pecorini imputa al primo articolo di Vassalli, essere frutto, cioè, di "ignoranza e di pigrizia", sia piuttosto la base comune di chi si accosta a don Milani. Quasi che tentarne valutazioni e interpretazioni a partire da quanto lo stesso don Milani non si è mai stancato di ripetere a proposito di quanto stava facendo fosse sacrilegio e non, come credo, il normale modo di lavorare per chi voglia dedicarsi alla ricostruzione di una biografia. Da lì, invece, da quel suo continuo refrain sul sacramento della confessione ("per il quale, quasi solo per quello sono cattolico") occorre partire, e poi cercare di cogliere la rete di effetti prodotti dalla sua azione e il loro significato.
Siamo (o dovremmo essere?) troppo disincantati esperti dei paradigmi delle cosiddette scienze storico-sociali per dimenticare che la coerenza (o spiegazione) dei fenomeni umani è sempre il prodotto ipotetico di un’operazione in cui si intersecano piani che, per quanto nella realtà empirica appaiano sempre inestricabilmente connessi, obbediscono a logiche diverse.
Così, per esemplificare, può accadere che Lutero, nell’affiggere le famose 95 tesi sulla porta della Chiesa di Wittemberg, risponda solo al suo problema religioso e che i contadini di Muntzer le traducano in un invito alla rivolta all’ordine costituito. Ma che c’entra Lutero con Muntzer? Nulla.
Una domanda simile possiamo porre a don Milani: Lettera a una professoressa riguarda la scuola italiana o non piuttosto la scelta di don Milani di salvarsi? Ora, sarebbe sicuramente scorretto spiegare gli effetti socio-politici della Lettera con la conversione di Lorenzo Milani, ma altrettanto scorretto giudicare le letture socio-politiche di don Milani indipendentemente dal suo problema etico-religioso che è quanto, invece, si è fatto (e si continua a fare), scambiando i suoi giudizi sul mondo per analisi sociali, economiche e politiche. E allora, sarebbe forse il caso, a trent’anni dalla morte, di iniziare a distinguere tra la testimonianza e la proposta politica donmilaniana, e magari domandarsi di nuovo le ragioni del successo nel mondo di chi considerava "l’unico compito dell’uomo (...) stare ad adorare Dio" e "tutto il resto (...) sudiciume".
Di questa complessa operazione, impossibile in questa sede, le note che seguono ambiscono solo essere una possibile traccia.
Com’è noto, dal 1947 al 1954, don Milani fece il prete facendo scuola. Su quali fossero le ragioni di una scelta così eterodossa rispetto alla comune prassi delle parrocchie del dopoguerra, Esperienze Pastorali è chiarissimo: creare il ponte che permettesse l’evangelizzazione. Non altro. Nessuna velleità rivoluzionaria, anzi: diminuire la differenza culturale tra poveri e ricchi avrebbe significato togliere "all’odio di classe gran parte della sua ragion d’essere" (EP, p. 220). Perché "a noi non interessa tanto di colmare l’abisso di ignoranza, quanto l’abisso di differenza": non si tratta, cioè, "di fare di ogni operaio un ingegnere, e d’ogni ingegnere un operaio. Ma solo di far sì che l’essere ingegnere non implichi automaticamente anche l’essere più uomo" (ibidem, p. 221).
Ma che significa "essere uomo"? Che cosa "dignità" e "giustizia" nel linguaggio donmilaniano? La risposta, ancora una volta, la fornisce lo stesso don Milani nella pagina seguente, quando contesta violentemente la prospettiva di borse di studio per "elementi di classi inferiori, ma personalmente dotati" con due argomenti: il primo, che non è per filantropia che nasce questo progetto, ma per "una necessità materiale del progresso tecnico"; il secondo che è rivolta solo "ai più dotati", per concludere che "queste son cose da lasciarsi fare ai nazisti, ai sovietici, agli americani, a tutti quelli che vivono per l’efficacia e che nell’efficacia dei loro atti pongono l’unica ragione di vita. Non noi che abbiamo per unica ragione di vita quella di contentare il Signore e di mostrargli d’aver capito che ogni anima è un universo di dignità infinita. Borse di studio ai deficienti e un branco di pecore da badare ai più dotati! Ecco uno slogan che sarebbe degno di un partito cristiano e mostrerebbe che tra cristiani e il mondo c’è poche parentele!" (ibidem, pp. 222-223).
Certo, poco sopra aveva scritto: "Si cerca l’efficacia prima che la giustizia. Il progresso della scienza e il benessere di tutti prima di aver assicurato a ogni singolo la dignità d’uomo". Un ottimo slogan, sicuramente, ma solo per chi ha scambiato (e continua a scambiare) l’Apocalisse di S. Giovanni con il Capitale di Marx, come accadde anche a chi, senza sapere di esserne un epigono piccolo piccolo, tradusse lo slogan donmilaniano sopra citato nell’elogio dell’ignoranza, preoccupandosi di chiarire che non si trattava della "dotta ignoranza" erasmiana.
So bene che gli effetti prodotti dalla "scuola popolare" e da Esperienze Pastorali furono per molti versi dirompenti nella chiesa italiana (e non solo) della ricostruzione post-bellica, ma ciò non può significare in alcun modo evitare di confrontarsi con il reale fondamento dell’opera donmilaniana, ovvero il rifiuto radicale del mondo.
Qualcuno potrebbe obiettare: e ch[e] rilevanza può avere, quando ha realizzato una scuola laica, denunciando le disuguaglianze di classe e la carità pelosa dei ricchi? Apparentemente nessuna, in realtà determinante, perché, nonostante tutto questo (e altro ancora che potrebbe essere detto a proposito dell’esperienza di S. Donato) Esperienze Pastorali non è, quando viene pubblicato, che uno dei segni della totale incomprensione delle trasformazioni avvenute nella società italiana dalla fine della guerra.
Nel 1958, infatti, il dopoguerra è definitivamente finito e la ricostruzione sta lasciando il campo ad un sistema di consumi allargato o, per dirla con il termine coniato proprio allora, sta esplodendo il boom economico italiano. Bisogni, stili di vita e modelli comportamentali mutano radicalmente, e con essi si ridefiniscono i valori e i costruiscono nuovi soggetti sociali. Il divertimento, questa offesa del tempo, contro il quale don Milani si scaglierà fino all’ultimo giorno di vita, sta diventando industria di massa e i giovani, per la prima volta nella storia italiana, si vengono definendo come soggetto sociale in contrapposizione/complicità con il mondo degli adulti. La mobilità sociale, anch’essa per la prima volta nella nostra storia, diviene possibilità reale per milioni di persone, proprio attraverso l’aumento esponenziale della scolarizzazione.
Orbene, cosa propone don Milani per non "restare indifferente di fronte al muro che l’ignoranza civile pone tra la sua predicazione e i poveri"? Visto che "la rovina dei nostri ragazzi non è nei difetti della scuola, ma a casa, inutile dunque cercare soluzioni legislative", occorre invece "monopolizzare /.../ i pomeriggi e le vacanze dei ragazzi, i dopo cena, le domeniche e le ferie degli operai, gli inverni dei contadini", affinché "la nostra canonica non abbia più assolutamente nulla in comune con la Casa del Popolo. Quasi tutto in comune con un monastero benedettino" (ibidem, pp. 219-220).
Per fare che cosa? Per diventare "persone", per acquistare, attraverso il linguaggio, la "dignità" che può nascere solo quando si è in grado di far valere i propri diritti nei confronti dei padroni. Ma, appunto, non per cambiare status.
Lettera a una professoressa esce nel 1967, due anni prima è iniziato il processo per la Risposta ai cappellani militari, don Milani è ormai entrato nel circuito massmediologico. Eppure lui rimane al suo "confino", "obbedientissimo" al suo arcivescovo, anche se "l’obbedienza non è più una virtù". Ma su questo punto si è già scritto molto, ed in maniera definitiva. Mi preme invece, continuando sul filo del ragionamento iniziato sopra, soffermarmi sull’esperienza di Barbiana.
Ai suoi "montanini", com’è noto ha dedicato tutti gli anni che gli restarono da vivere, proseguendo coerentemente nel suo progetto di vita, ma accentuando e, in qualche misura, cambiando l’impostazione della precedente scuola popolare di S. Donato. Non mi riferisco tanto alla didattica (che in questo contesto può essere tralasciata, non senza prima aver ricordato che un peso determinante, a questo proposito, ebbe l’incontro con Mario Lodi e il MCE), quanto alla configurazione politico-sociale di Barbiana. Da questo punto di vista, infatti, ciò che in Esperienze Pastorali poteva essere scambiato, nonostante tutto, per una provocatoria presa di posizione nei confronti della scristianizzazione del mondo, a Barbiana diviene la regola teorizzata e perseguita. In altri termini, l’ordine del discorso è identico, ma sul monte Giovi il "monastero benedettino" diviene una precisa scelta di separazione/opposizione nei confronti del mondo.
Certo i ragazzi devono conoscere il mondo (i soggiorni all’estero), anche in età giovanissima, ma dopo che ne è stata accertata la capacità di farlo. Insomma, i "montanini", in quanto ultimi tra gli ultimi, divengono progressivamente per don Milani i portatori di una cultura altra, incarnazione della possibilità più propria per diventare eletti una volta che abbiano imparato a comunicare.
Mentre, infatti, nella Lettera di un prete di montagna, inserita in Esperienze Pastorali, i "montanini" gli si configurano come "animali inferiori" per i quali occorre la cultura per diventare uomini, in Lettera a una professoressa la cultura diventa strumento di oppressione e selezione di classe, la lingua dei "Gianni" l’espressione di un mondo altro e migliore, la scuola uno strumento per continuare a legittimare l’inferiorità sociale. Da qui l’apparente paradosso delle conclusioni donmilaniane: i poveri debbono imparare la lingua dei borghesi, perché il mondo è loro, ma, allo stesso tempo, rifiutarsi di uscire dalla classe di appartenenza. Dal "monastero" si esce per incontrarsi col mondo, ma rimanendo stranieri: si debbono stabilirire rapporti col mondo, ma come sindacalisti e operatori sociali, per curarlo. Testimoni, dunque, di una uguaglianza in Cristo, non certo degli uomini, se non, appunto, come ugualmente degni di Salvezza. La Civitas Dei è aperta a tutti, ma al prezzo di accettarsi come peccatori in una civitas terrena nella quale non c’è salvezza.
Dimenticare don Milani, allora? Non possiamo, almeno finché non riusciremo a fondare la nostra avventura non sulla Colpa ma sulla Responsabilità, smettendo definitivamente di attendere la Salvezza da una Parola, impegnandoci magari a costruire la trama delle possibilità. Lo so, da quel giorno nell’Orto degli Ulivi, siamo consegnati a noi stessi, ma perché colpevoli?
In fondo, una certa educazione alla dignità e che un contadino vale quanto un padrone è quanto resta anche dell’insegnamento del PCI. "Non è poco", commenta Miriam Mafai alla fine del suo Botteghe oscure addio.
DON MILANI, PRETE ESILIATO DALLA CHIESA
di Adriano Sofri
Panorama, Roma, 5 aprile 2001, pag. 310
Si pubblica il carteggio tra il sacerdote di Barbiana e monsignor Capovilla.
Che mostra il carattere profetico e gli sdegni di un curato che viveva in "zona scristianizzata". Ma bandito a lungo dalla stessa gerarchia.
Vi segnalo uno dei capitoli più inediti di un nuovo libro di e su don Lorenzo Milani, I care ancora, appena uscito per l'Editrice missionaria italiana a cura di Giorgio Pecorini (480 pagine, 35 mila lire). È un carteggio con monsignor Loris Francesco Capovilla, iniziato nel ’60 da una lettera di don Milani. Capovilla era stato segretario particolare di Angelo Roncalli quando era ancora patriarca di Venezia, poi lo aveva seguito a Roma quando, nel '58, diventò inopinatamente Papa. Fu la sua ombra per tutta la durata di quello sconvolgente pontificato, poi fu da vescovo a Chieti e Loreto e oggi è arcivescovo e vive a Sotto il Monte Giovanni XXIlI, Bergamo, dedicandosi senza risparmio alla memoria del suo Papa e alla causa della sua santità.
Nella prima lettera don Milani gli domanda se il decreto del Santo Uffizio del '58 che aveva ritirato dal commercio il suo libro Esperienze pastorali e ne aveva vietate le traduzioni non possa considerarsi ormai superato. Gli hanno chiesto una traduzione francese per le Editions du Seuil. Forse Capovilla potrebbe accennarne al Papa? Il tono di don Milani è spiritoso. "Sono passati due anni da quando il mio libro era "esplosivo", le cose "ardite" che conteneva sono ormai patrimonio delle persone moderate". Don Milani ricorda di avere ricevuto in passato un opuscolo da Capovilla e gli dice: "Non so perché, ma ho idea che ella debba provar per me dell'affetto e del rispetto". Monsignor Loris risponde subito, in un tono affezionato ma cauto: in sostanza esortando alla pazienza e alla discrezione. Passano altri due anni e nel maggio del '62 don Milani accompagna i suoi ragazzi a Roma, ad assistere a una seduta parlamentare, a partecipare a un'udienza papale e a visitare i Musei Vaticani. È la visita ai Musei e alla basilica di San Pietro a suscitare lo scandalo dei ragazzi e del loro padre, che lo mette senz'altro per iscritto.
"L'impressione favorevole, inutile dirlo, l'ha data il Papa. Per le cose dette e per la maniera di dirle. Sembrava davvero un contadino o un vecchio parroco di montagna". Per il resto, un disastro. Prezzi dei biglietti esosi, impiegati sprezzanti, "insensibili di fronte a ragazzi di montagna, sensibili solo alle contesse tinte e ingioiellate". Ecco come finisce la lettera: "In Vaticano dei ragazzi di montagna che vivono fra dure privazioni contano meno di un oppressore in marsina e cilindro con moglie letteralmente coperta di gioielli e tinta che abbiamo visto distintamente a mezzo metro dal Papa. I miei ragazzi non sono abituati a vedere donne tinte. Nessuna delle loro mamme o sorelle si tinge. Non potrebbe il Papa mettere dei lavandini agli ingressi del Vaticano e ricever solo figliole con la faccia lavata? In tal caso può mettere anche il sapone a pagamento perché le mie bambine non ne avranno bisogno".
È difficile immaginare l'effetto di una simile lettera in Vaticano. Monsignor Capovilla la passa al cardinale sostituto, monsignor Angelo Dell’Acqua, che gli risponde già il giorno dopo. L'esordio è notevole: 1. "Lo scritto è un po' duro e risente l'amarezza provata; ma si spiega e si comprende". 2. "È una lettera che va letta e riletta e..., se fosse possibile, fatta leggere o almeno conoscere in Vaticano /.../ 4. "Penso si tratti di un buon parroco. Perciò...". Perciò, conclude monsignor Dell’Acqua, mandiamogli 500 mila lire per i parrocchiani e qualche regaluccio ai bambini. Capovilla allega poche righe di appunto: "Don Milani è certamente un "valoroso". La sua vocazione lo sospinge sulle vie della riscoperta dell'uomo". Il più curioso è, annota Pecorini, che Dell’Acqua sembra essersene dimenticato, ma quattro anni prima era stato proprio lui a sollecitare la stroncatura dei gesuiti alle Esperienze pastorali, che aveva dato l'avvio al bando del Santo Uffizio. Capovilla avrebbe poi difeso Dell’Acqua e spiegato il caos del suo tavolo, in balia delle mani più diverse.
Morto Giovanni XXIII ('63) ed eletto Paolo VI, don Milani gli scrive a mano nel '64 perché ha bisogno di una medicina disponibile solo nella farmacia vaticana per il suo cancro, e non se ne può più permettere la spesa. (Letterina da leggere e rileggere: "Santo Padre, sono un parroco di montagna congruato... In futuro la dose dovrà essere aumentata. La nostra mutua diocesana non me la paga trattandosi di malattia cronica"). Capovilla, che è ancora in Vaticano, inoltra lui la lettera a monsignor Dell'Acqua. "È condannato" scrive. "Non lo conosco personalmente, ma solo per corrispondenza e vorrei andare a visitarlo... Ha molto sofferto. Dirà taluno: per causa sua. Ma, in faccia alla morte, sembra doveroso aggiungere: trovandosi in zona scristianizzata, ha voluto tentare metodi nuovi, disturbando quei ceti padronali che non perdonano". La risposta positiva arriva a don Milani accompagnata da una lettera di Capovilla. Don Milani risponde affettuosamente, senza rinunciare a menzionare lo "scandalo quotidiano" della Chiesa fiorentina. Un mese dopo, nel luglio del '64, riscrive riguardo alla medicina, e aggiunge: "La Chiesa vorrà almeno farmi il garbo di prolungare un po' questa vita che non le è parso di usare se non per esiliarla. Ho sempre pensato che lo stare in esilio sia un'elevata funzione ecclesiastica". Nel '97, consegnando il carteggio, monsignor Capovilla lo accompagnò con un accurato appunto, di cui Pecorini indica delicatamente il rimpianto per le cose mancate. "I miei predicozzi erano fiorellini nel confronto coi carboni accesi di Milani!... Vittima dell'ambiente, non osai recarmi a Barbiana. Me ne dispiace tuttora... Alcune sue esternazioni lasciavano impietriti, come le voci dei profeti i quali non conoscono sfumature di sorta".
Vedete come sono forti queste pagine. (Io, che da miscredente sono affezionato a monsignor Capovilla, mi sono chiesto se lui stesso non si sia sentito un po' in esilio, qualche volta. Ma lui è sempre fedelmente restato accanto al suo Papa, un passo indietro).